venerdì 29 giugno 2012

le verità di sampietroepaolo

abbiamo tutti sete di verità.
quindi, siccome oggi è sampietroepaolo, secondo me possiamo concederci una piccola licenza di verità personali e libertariamente arbitarie e nostre.
primo perché sampietro era uno pieno di chiavi e con le chiavi ci puoi sì chiudere tutte le porte che ti pare, ma, si sa, anche aprirle e trovarci la verità.
secondo perché sampaolo era uno che ha scritto un sacco di lettere e in tutto quel bendidio ci dev’essere sicuro nascosta qualche verità, perché lo dice la legge dei grandi numeri e ai numeri occorrerebbe credere.
terzo perché erano in due e in due si possono dire cose più vere che da soli. 

pertanto ho pensato di buttare giù un elenco di verità che oggi sono molto vere, poi domani si vedrà, ché già che siano vere soltanto per  un giorno è una rarità assai preziosa.
poi per ogni verità metterò delle possibilità, cosicché le verità non saranno solo mie ma pure un po’ vostre, sempre e solo se avrete tempo e se vorrete.
perciò un giorno nelle note potrete inserire la vostra verità personalissima, oppure una di queste mie con il vostro voto, come in una battaglia navale (tipo: 1 a).
e grazie, e ciao.






1) le zie leggono harmony.
cioè, mica tutte, però in famiglia almeno una che legge queste struggenti storie d’amore e follia e piange c’è per forza, perché lo dice statistica, un po' come uno che è dipendente statale: ce n’è senz'altro uno in ogni famiglia. dunque secondo voi questa verità è:


a. fintissima… buuu!
b. poco probabile
c. come no, è probabile
d. vera (come l’aloe)
e. vera per forza
f. sempre verissima
g. sacrosanta e ci metto proprio la mano sui carboni ardenti


2) le cotolette alla palermitana non sono né di palermo, né di milano: sono extracomunitarie.
deriva dal fatto che le cotolette per antonomasia sono milanesi e pure fatte alla milanese: se non sono cucinate così, un milanese le rinnega e dice che no, non sono cotolette manco un po'. poi alla palermitana perché a palermo sono geni e condiscono molto con il pan grattato, gli odori, i pomodorini. ma mica sono scemi che si mangiano le cotolette da impiegato: lì hanno il mare azzurro come pochi e quindi ci condiscono tipo la spigola pescata non più di dodic’ore prima. e allora queste cotolette alla palermitana sono per forza un ibrido, un incrocio impuro né del nord né del sud, manco di centro perché lì usano il prosciutto cotto. quindi sono extracomunitarie, che tanto quelli vanno di moda e non ti sbagli mai.


a. fintissima… buuu!
b. poco probabile
c. come no, è probabile
d. vera (come l’aloe)
e. vera per forza
f. sempre verissima
g. sacrosanta e ci metto proprio la mano sui carboni ardenti


3) si sta insieme per trasformarsi.
perché se no uno sta per fatti suoi e basta, o no? tutta la fatica che uno fa per: accettare un estraneo-da-sé, che magari puzza pure e fa i rutti per apprezzare la cena; sforzarsi di mettere un attimo da parte le proprie idee per ascoltare le sue, magari molto diverse che già ti viene l’orticaria che ti perfora il timpano e sei fottuto, perché il timpano non te lo ripara più nessuno; sbattersi a manca e a destra per trovargli un bel regalo di compleanno degno dell’amore reciproco, che sì piaccia un po’ a te ma soprattutto che sì piaccia all’altro, perché è suo mica tuo, cioè è tuo per meno tempo di quanto sarà suo; invecchiare insieme a lui, pieni di rughe, con la pelle che ciondola da sotto il mento, una sola sedia a dondolo da condividere, ovvero dividere in due che è lite sicura tutti i giorni… capito? almeno trasformati! cambia, evolvi, accresci conoscenza e coscienza, che ne so, ridi, fottitene, alleggerisciti l’esistenza e cedi al cambiamento, che non t’ammazza, ma anzi: guarisce.


a. fintissima… buuu!
b. poco probabile
c. come no, è probabile
d. vera (come l’aloe)
e. vera per forza
f. sempre verissima
g. sacrosanta e ci metto proprio la mano sui carboni ardenti


4) chi tace sente.
se parlo, sento quello che dico io. se resto in silenzio, ascolto il mondo. che è meglio.


a. fintissima… buuu!
b. poco probabile
c. come no, è probabile
d. vera (come l’aloe)
e. vera per forza
f. sempre verissima
g. sacrosanta e ci metto proprio la mano sui carboni ardenti


5) ognuno di noi nella propria individualità sa fare qualcosa di unico che nessun altro sa fare.
anche solo rompere le palle: per esempio come rompo le palle io, nessun altro sa farlo. col mio modo, intendo. niente, non c’è storia. perché anche lì ci vuole ingegno, fantasia, scaltrezza, animo, gentilezza, una t-shirt aggressiva, lo smalto scuro, non essere troppo alti se no distogli l’attenzione… occhei? siamo unici, non esiste nessuno su questa terra e in altri mondi uguale, ugualissimo a ciascuno di noi: dentro, fuori, intorno, sopra, sotto, di lato, supino o a testa in giù. ed è una cosa meravigliosa.


a. fintissima… buuu!
b. poco probabile
c. come no, è probabile
d. vera (come l’aloe)
e. vera per forza
f. sempre verissima
g. sacrosanta e ci metto proprio la mano sui carboni ardenti


6) varie ed eventuali.
che magari poi se no v’addormentate, perché lo so: è sempre e comunque e ufficialmente venerdì per tutti quelli che credono che lo sia, veramente e sul serio.

vi stimo, moltissimo
bi


[foto di erica calardo art
twinkle twinkle
graphite, pastel and gold leaf on paper, 2012]

giovedì 28 giugno 2012

(lettera alla persona che sarò tra cinque anni)




cara bo,
quando avevi vent’anni eri certa che chi ne avesse quarantatré fosse arrivato in cima all’albero della conoscenza e ne avesse accarezzato ed assaporato tutti i mille frutti.
tu sei caduta, invece?
perché capita, non affliggerti: io una volta sono caduta da un abete in tre secondi, che -voglio dire- è molto meno impegnativo.
devo ammettere che i tuoi quarantatré li indossi divinamente, nonostante le incertezze dell’esistenza.
sono felice del fatto che conservi  ancora quel tuo sguardo innamorato e furbo verso il mondo e che i tuoi occhi alternino ancora il giallo autunnale al verde del bosco di giugno, misti al marrone della corteccia perenne delle querce abruzzesi.
hai ancora quello stesso sorriso di quando avevi sei anni e ti scattavano una foto, mentre per la luce del sole trasformavi in un attimo gli occhi tondi tuoi in due fessure strette e timide e spalancavi verso gli altri i tuoi denti ancora incerti e giovani.
(comunque falla una pulizia dei denti, ché il dentista non è un orco cattivo, in genere).
ho letto il tuo libro e sono rimasta sbalordita: come ti è venuto in mente di intitolarlo “il manuale delle giovani anzianotte”?
perché uno in genere parte con qualcosa di autobiografico, visto che aiuta nell’espressività: c’è dell’autobiografico, dunque?
comunque il fatto che contenga tutte quelle immagini è incantevole, ti sei anche risparmiata di spremerti le meningi per allungare il brodo.
deve essere stata una magia meravigliosa l'aver raggiunto i tuoi piccoli grandi traguardi.
le gentili rughe che ti affrescano il viso ne sono la testimonianza: la vita l’hai vissuta e non ne hai rinnegata neanche una, di ruga.
questo, oltre ad essere un aspetto coraggioso, è anche segno di una conquistata consapevolezza: brava! sono fiera di te.
hai sempre parlato dell’importanza dell’autoironia e sono certa che questo atteggiamento ti abbia dato un forte valore aggiunto, non è vero?
e con i quarantatré devi averla incrementata e diversificata, oppure oggi consiglieresti qualcosa di diverso a tua figlia?
le hai già letto il tuo libro? il titolo, intendo.
a proposito, hai immortalato la tua laurea con quella cornice biodegradabile di cui andavi orgogliosa, fatta di carta, bottoni, fiocchi di cotone e cuori colorati?
e la lasci sempre in balcone tutte le notti di luna piena, per rinvigorirla di energia cosmica?
(e soprattutto i tuoi vicini se ne sono accorti?)
mi chiedo quale sia l’inconfessato antidoto con il quale affronti le sfide dell’ordinarietà quotidiana: io ti immagino ancora con il viso impastato di lievito per dolci, miele e limone, mentre parli al telefono con la tua amica e non riesci a muovere le guance, perché nel frattempo ti si sono ossidate e cementificate.
ma non fai prima, a quarantatré anni, a lasciare il fai-da-te per passare ad una cosa commerciale, tipo il pronto-moda?
poi fai tu, che tanto i consigli li hai sempre seguiti a metà, mettendoci del tuo.
ascolti ancora i pearl jam, oppure sei tornata a madonna, per sentirti un'adolescente in preda ad una tempesta ormonale, come quando avevi quattordici anni?
piuttosto, hai visto madonna com’è invecchiata, quando la fotografano senza trucco e senz’inganno?
o ancora pensi che le persone siano migliori nella loro naturalezza e spontaneità?
dai, non puoi ancora ribellarti alla tecnologia di photoshop, sei anacronistica, un quadro antico, una mosca bianca, una pecora nera!
oddio, scusa, le etichette te le sei sempre rinominate…
preferisci cigno bianco, va bene come via di mezzo buona e giusta?
sì, lo ammetto, ti sto tartassando di domande, ma con tutte quelle che hai fatto tu a me negli anni, ora che posso fartele io mi sfogo proprio, così non mi vengono i brufoli da ragazza sempreverde.
(e che cavolo!)
senti, rivediamoci presto e se ti va porta pure tuo marito, così ci dai le prove della sua esistenza.
mica può continuare ad essere un atto di fede dell’umanità credere che lui sia lui, cioè marito, no?
prenditi cura di te, mi raccomando, prima di te e poi degli altri.
ché si ama sempre meglio, quando si comincia dall’amarsi.

tua -inossidabile- bi

(ma io poi, in tutto ciò, potrò rispondermi un giorno? tipo intervista? e comunque scrivetevi pure voi una lettera, come rob brezsny mi ha detto di fare: è fico e bello.)

mercoledì 27 giugno 2012

alcuni momenti della vita di barbara b.

ore 6.35
suona la sveglia.
è di quelle inesorabili e senza melodia e senza volto, che mi tolgono il fiato e che fanno sciogliere qualsiasi notte, che ella lo voglia o meno, che io mi ribelli o no.
quando andavo a scuola pensavo che un lavoratore, rispetto a me, fosse un privilegiato, uno che al suono della sveglia potesse dire con semplicità: no, non mi alzo.
mentre io ero costretta ad andare a scuola.
intorno è silenzio, nessun fiato, il corpo è pesante e non parla, né sussurra.
suona la seconda, alle 6.48.
alla prima non ce l’ho fatta, ma l’ansia del dovermi rizzare e scattare nella doccia non mi ha fatto comunque riprendere sonno, con quella morsa al petto, mentre cerco di convincermi che ci sia del piacere profondo ed intimamente sensuale nello spalmare il burro candido sulla fetta ben biscottata, baciato con delicatezza dalla marmellata di more selvagge di bosco, viola forte e scuro che sembra sangue e sa di bosco vero, quello in cui si aggirano in estate ancora le lucciole.
la doccia è tiepida ed io mi faccio scivolare dall’inerzia verso i miei movimenti rallentati e un po’ assenti e muti e un po’ grigi.
meno male che c’è musica, di quella che chiudo gli occhi e penso che valga la pena di essermi trattenuta qualche minuto in più nel bagno.

ore 12.34
tutti i giorni, senza saltarne uno, da un lunghissimo tempo ormai, mi scuoto dalle noiose attività del mattino e guardo l’ora: sono puntualmente e tutte le volte le dodici e trentaquattro.
non un altro istante, non un altro orario, non un altro momento: proprio quello.
tutti i giorni.
numeri di una precisione e ciclicità misteriose e perenni : 1, 2, 3, 4.
tutti i giorni, sempre alla stessa ora.
poi un giorno ero nella sua cucina, seduta a sorseggiare una tazza di tè, con il volto rivolto a sinistra a guardare oltre la sua figura, più distante e fuori dalla finestra verso il glicine sfiorito e autunnale.
ridevamo e il tè era buono e sapeva di casa.
mi giro a destra, alzo gli occhi sopra alla porta della cucina e vedo una targa.
mi si ferma un attimo il respiro.
ci sono quattro numeri in sequenza: 1, 2, 3, 4.
quasi a sbattermi in faccia l’evidenza di un interrogativo misterioso che non desiderasse più essere tale e volesse invece palesarsi e gridarmi: sono loro, i numeri! erano per tutto questo.
e quella successione di fibonacci continua, tutti i giorni, ancora oggi, e io sorrido, leggera.

ore 16.04
nella casella di posta aziendale continuano ad arrivarmi, con una costanza come quella di pochi, messaggi di hotel sparsi in tutta italia: devono necessariamente ritenere che io usi alberghi a ore.
poi mi scrivono dall’est, dicendomi che ci siamo parlati una volta e che vogliono continuare a parlare e allora ecco che mi lasciano un link, sinistro e diabolico (ed io questo lo so), e un numero sconosciuto, che io, secondo loro, dovrei chiamare.
e sono donne.
e le immagino bionde e composte, con gli occhi chiari e arrotondati, un timido sorriso accennato su labbra sottili, capelli aggiustati e pronti e ben pettinati, sobriamente agghindate.
e mi piace immaginarle così.

ore 17.46
le cuffie mi premono sulle orecchie, mentre ascolto una musica forte che mi dica: è finita, rilassati.
porta la mente altrove, fai altro, posa il tuo sguardo su cose che vivono e si muovono per scelta loro.
e allora mi giro tra gli scaffali un po’ svuotati e con un ordine che non riconosco del piccolo negozio sotto casa mia, dove preferisco fare la spesa.
ho aperto un gelato una volta, poco tempo fa, ed era mezzo squagliato, tutto spostato a destra e mezzo disfatto, come un letto dopo una notte densa di incubi.
abbassano i surgelatori, mi dico, per risparmiare e tagliare le alte spese.
non hanno più un grande giro di clienti e si stanno pure facendo più vecchi di com’erano quando da piccola giravo per quegli stessi scaffali, toccando assorbenti igienici solo perché erano colorati e senza sapere cosa fossero.
stanno riassortendo poche cose, niente più sott’oli, pochi dolci, niente gelati nuovi e hanno spostato la pasta dove prima avevano le bevande.
io mi rattristo e penso che le fini siano spietate e feroci e ineludibili e che mi mancherà fare la spesa lì da loro e chiacchierare alla cassa di come sta loro nipote, mentre loro vogliono che io racconti dell’abruzzo.
voglio ancora andare lì a fare la spesa, finché ci saranno loro.
e non m'importa del gelato disordinato.
poi non so.

ore 21.18
a quest’ora in primavera vedevo venere, affacciandomi dalla finestra della cucina.
ora è sparita da questo spicchio d’orizzonte ed è arrivato il carro: sette meravigliose ed illuminatissime stelle a formare l’orsa maggiore, che decretano l’arrivo dell’estate e mi accompagnano sempre e ovunque, anche in abruzzo se guardo all’incirca verso nord.
loro sono un’altra certezza dai tempi dei tempi, quando cercavo di orientarmi mentre aspettavo le stelle cadenti.
e allora la sera mi piace ritrovarmi lì, tutti i giorni, su quello spicchio di balcone vicino al gelsomino, con mezzo bicchiere di qualsiasi cosa e loro, le stelle, mentre raccolgo la vita della giornata e tutte le idee e tutte le persone e tutte le cose, pensando che quel momento lì, insieme alle stelle, solo io e nessun altro, è bello da sospendere il tempo e zittire i rumori e merita tutti gli sforzi e la stanchezza di una giornata mediamente trascorsa durante una settimana qualunque.

bi   

(magari ci sarà un seguito, forse).



martedì 26 giugno 2012

a manuela, lei sa perché

a manuela, lei sa perché.

-nooo, io questo compito non lo copio, perché non lo capisco!
-copia, cazzo! che poi te lo spiego a casa oggi!

andava così tutte le volte, perché lei è da sempre questa: integra, impostata con la testa alta ed il mento verso il cielo, il collo come un cigno elegante e fragile, braccia lunghe come ali pronte a spiccare il volo.

-hai copiato tutto?
-no, l’affare dell’iperbole no.

copiare il compito di matematica, nonostante tutto, le sembrava come rubare, mentre io glielo regalavo.
e a chi importava il fatto che ci stessimo prendendo gioco del professore e della sua istituzione?
quello tutte le volte diceva a lei e a g.:

-n. e p., voi due non vi divido, tanto in due non ne fate una che capisce.

e uno così se lo meritava di essere raggirato. per un sei questo sì, altroché.
a giugno tutte eravamo già nere di sole e bagni al mare e spiaggia fino alle otto di sera, lei invece restava chiara e diafana, per prepararsi al saggio di danza classica di fine anno.

-ma non puoi venire un po’, tipo che ti metti sotto l’ombrellone?
-ma che sei matta? a. ci vuole tutte bianche!

e non veniva mai, ligia e retta al suo dovere di cigno bianco, in mezzo a tanti pulcinetti che le svolazzavano attorno.
e la sera del saggio era sempre bellissima e mi faceva piangere per quanto fosse bella.
una volta aveva un vestito rosso, tutto lungo e largo e con delle fascette di pizzo nero, perché doveva ballare il can can.
da lontano vedevo le sue agili gambe muscolose e nevrili alzarsi per l’aria fiere e piene d’energia e lei era bella con quel viso candido e quel vestito rosso fuoco.
è del leone, manuela, come il mio ascendente.
io ascendo a lei.
io me la accarezzo, mi prendo un po’ cura di lei, le scrivo dei messaggi d’amore, le regalo libri che seguono il percorso di vita che sta calpestando, con dediche e cuori sopra.
lei c’è. e basta.
io alzo il telefono e lei con un sorprendente balzo da ballerina compare.
lei archivia tutto.
apro la sua borsa e ci trovo mille matrioske con tutti i suoi oggetti ordinati per argomento, come solo una donnina così perfetta saprebbe fare.
la sua stanza era come lei: danzava e stava composta, tutt’e due insieme.
e la sua casa di oggi altrettanto, tutto ben posizionato e pronto ad accoglierti e farti mettere comodo sul divano etnico e spazioso per poterci entrare in tanti. 
quando sto con lei non mi cadono neanche le cose dalle mani e per magia non combino i danni miei.
un giorno eravamo immerse nei racconti solo nostri e a un certo punto le dico che puzzava: l’aria puzzava di bruciato.
e siamo schizzate in cucina e io ho spalancato il mobile del cestino con l’immondizia.
un fumo grigio e sinistro ci avvolse: una sigaretta spenta male ci stava incendiando e aveva già disciolto il secchio di plastica!

-giuro che non svuoterò mai più il posacenere appena finito di fumare!

neanche quello poteva starsene tranquillo in disordine.
pure quello sistemava subito, rischiando di bruciarci vive.
giochiamo a carte, andiamo al mare, ci facciamo le nostre cene solo nostre, le faccio bere il vino e lei mi fa fumare, piangiamo, ridiamo e ci amiamo.
e dobbiamo fare ancora un elenco molto fitto di vita.
lei non balla più, ma io la vedo ballare tutti i giorni.

bi






[le ballerine di degas]

lunedì 25 giugno 2012

gli opposti si attraggono, ma più per meno fa meno. e quindi?

questa storia degli opposti è una bufala e infatti mi è sempre puzzata.
quella che gli opposti si attraggano, sì, che è una mezza fregatura, una mezza verità, una mezza credenza, una mezza bugia, una mezza che se è mezza non è intera e punto.
per esempio, al liceo ho studiato che gli anioni e i cationi si attraggono e creano un legame tutto loro che ha il nome di legame ionico.
quindi, dico io, abbiamo risolto!
quando incontriamo qualcuno che ci piace, che ci fa venire le farfalle nello stomaco e non è fame (nel mio caso è fame quasi sempre, ma va bene), che ci attrae manco fosse una calamita di un metro e ottanta e ottanta chili di massa (che è diversa dal peso e bla bla), che ci ingoia con uno sguardo e stiamo lì come delle statuette di terracotta senza testa, allora è fatta: lui è anione.
e perché non catione, direte voi?
perché catione ha una carica positiva e, se permetti, catione sono io e tu, se vuoi, hai la carica opposta, cioè negativa (con tutto rispetto, intendiamoci).
ed ecco che cominciamo a danzare nel nucleo dell’atomo con tutti i più e i meno vorticosamente innamorati, fino a non capirci più un bel niente per un po’.
danziamo, balliamo, giriamo, ci amiamo, ci baciamo ed ecco che arrivano, perché stanno lì al varco, lettere e testamento.
lettere dice: siete troppo diversi, praticamente incompatibili, siete come due rette parallele che non si incontrano mai, perché i piani sono cartesiani e la geometria pure, perché arriva maggio e non fanno in tempo a spiegarti la fisica quantistica, che ti dice: no! due rette si incontrano eccome, perché il mondo non è mica piano ed euclideo, ma tondo… e tu boh, pensi che hai fatto cinque anni di liceo scientifico con voti mediamente alti in matematica e fisica a buffo.
insomma, lettere dice che basta, siete diversi e vi siete rotti di scontrarvi, perché è evidente che non balliate più e dobbiate fare testamento.
e giù a litigare e a scannarsi, perché il testamento è una roba delicata di proprietà, spazi, cose mie e non tue e no solo mie e non più tue, ché le cose regalate restano incatenate e così sia.
muore quell’attrazione tra catione e anione, magari pure perché uno che era catione diventa anione e si respinge con quello che anione era e a anione è rimasto.
(capito, no?)
poi invece, sempre al liceo, ho studiato in matematica che la moltiplicazione tra segni opposti produce sempre e solo un risultato negativo, una cosa nefasta proprio: più per meno fa meno e meno per più fa chiaramente sempre meno. cioè:

+ * - = -
ovvero
- * + = -

oh, poi la moltiplicazione tra segni uguali produce sempre un segno positivo: più per più fa più e meno per meno fa sempre più!

+ * +  = +
- * - = +

quindi magari conviene andare in giro e non degnare anione mai più di un solo sguardo, perché ti frega.
conviene tenere bene gli occhi aperti e cercare uno dello stesso segno tuo, tipo più se tu sei più e meno se tu sei meno e, se ti dice culo sia che lo incontri sia che ti vede sia che lo vedi tu, allora è fatta: per la matematica il vostro legame ha il segno positivo.
facile, vero?
infatti, una cavolata proprio.
allora in sostanza, che continuiamo a fare ancora con questa storia ridicola e vetusta che gli opposti si attraggono, per farci andare bene cose che non vanno bene, perché i detti barano?
io l’ho sempre detto che la colpa è dei detti. che li diciamo a fare?
come al solito, l’inghippo c’è e il trucco pure e mo ve lo dico io.
la risposta a questa diatriba, per molti banale, per altri romantici accaniti come me una sofferenza cosmica (tutta colpa di cime tempestose), ce la consegna chiavi in mano la filosofia orientale con una cosa strepitosa: yin e yang.
la verità sta tutta lì e io non sto qui a spiegarvela, perché vi sfido a fidarvi, fidatevi.
e come al solito, laddove l’occidente fallisce e tramonta con i suoi concetti democratici e universali e illuministici eccetera (dico eccetera che se no mi ci vuole un libro per elencare tutte le bravate dell’occidente), il levante si leva ed eleva e fa l’oriente buono e giusto e sorge.
e decreta la vittoria di yin e yang e per sempre e amen.
infatti mica è un caso che il sole se lo sia scelto come posto in cui nascere, per morire ad occidente.
il sole mica è scemo.

bi




[meravigliosa creazione di Aya Haidar]

venerdì 22 giugno 2012

ci sono domande e poi ci sono domande difficili e poi ci sono domande difficilissime



come mai la gente dà le cose per scontate, quando di scontato mo proprio mo non c’è più nulla? certo, a luglio ci saranno i saldi sotto il segno del cancro, ma comunque io non sto esattamente facendo sconti, anzi: io ho tipo aumentato le tasse e l'iva. sì.

come mai metti i pantacollant sotto il vestito? chiaramente è una domanda tipicamente maschia, che una donna proprio no, non farebbe. puoi pure chiamarli leggings, intanto, che fa più eighties, è più fescion e cerchiamo di parlare una stessa lingua (o quasi). e comunque li metto perché devo farmi la ceretta, va bene? tu come mai invece lasci a casa la tua immaginazione, che è parte del tuo (presunto) cervello?

come mai quando sono sul divano a vedere la tivù va tutto bene ed invece quando chiudo tutto e decido che basta, sono distrutta, è ora di farmi le mie otto ore di fila, ecco che dai miei vicini si accende la vita e cominciano a chiamarsi da una stanza all’altra manco avessero una reggia come quella di caserta? e a far abbaiare il cane per poi sgridarlo gridando affinché smetta? e ad ascoltare laura pausini a più di tre di volume? e a litigare sull’orario della cena che tanto già hanno cenato quindi ormai che ne parlano a fare? vicini, allontanatevi da me. grazie.

come mai sogno e mentre sogno so che è tutto un sogno ma mi angoscio un sacco come non fosse un sogno e se decido che basta sognare voglio svegliarmi da quel sogno il sogno invece continua imperterrito ad essere sogno come vivesse di vita propria e non fosse invece un sogno mio? non ci sono più i sogni di una volta.

come mai leggete fabio volo? dico io, con tutti i libri che esistono, pure quelli che hanno solo le figure, le parole crociate e i puzzle e i rebus, e valgono chiaramente pure topolino e il manuale delle giovani marmotte e le avventure di pimpa, comunque decidete di leggere fabio volo? cioè, non scrive lui. e chiunque scriva non è uno scrittore. sappiatelo.

come mai non abbiamo il coraggio di cambiare tante cose stupide ma proprio stupide che se le cambiassimo ne guadagneremmo, eccome? tipo: un giorno mi sono fatta coraggio e ho detto occhei, assaggio queste cavolo di alici. oh, non ci crederete: mo impazzisco per le alici che prima mi facevano senso! con quelle spinette pizzicose e quella consistenza poco consistente e viscida… insomma, per farla breve, mi sono convertita pure a un sacco di altre cose nuove negli anni: carciofi, cicoria, pane affettato invece delle rosette, broccoletti, fiori di zucca, pomodori secchi, peperoncini, melanzane sott’olio, kiwi e pure altra roba che ora mi sfugge ma che mangio. ma il baccalà no! quello non posso. sarà per via del nome.
   
come mai mi sento dire: vieni da me? quando vieni da me? è tanto che non vieni da me. orbene, capisco la predilezione freudiana o junghiana di ciascuno ad usare il tu, ma esiste anche l’io, oltre l’ego. per cui il tutto si traduce in: vengo da te? quando vengo da te? è tanto che non vengo da te. perché anch’io ho una casa, un mondo mio, cose mie, posti miei, eccetera. chiaro, no? non sono figlia di un benzinaio, ho poco tempo come tutti, ogni volta che mi sposto macino chilometri, ho una certa età... capito? e sia chiaro pure che tale considerazione nient’affatto superficiale né scontata vale per tutte le categorie esistenti: zii, cugini, amici, fidanzati, conoscenti, vicini, lontani, prossimi e venturi. c’è pure il dare, non solo l’avere. anche se sono entrambi prima coniugazione.

come mai da cinque giorni a questa parte, e tutt’ora infatti sto così, ho la sensazione che sto per distruggere qualcuno o qualcosa, annientarlo dalla faccia della terra, prenderlo a parolacce o a calci, insultarlo solo perché sì, senza che abbia fatto detto pensato nulla? vacanza, ho bisogno di una vacanza.

come mai sto qui, senza pranzo, senza fare pausa pranzo da una settimana, senza fare una pausa degna di essere chiamata tale di un’ora da sei mesi almeno, invece di stare dietro l’orto di casa mia in abruzzo a giocare con i mici nati da poco della mia lola, correndo su una salita di un metro con loro perché stanno imparando a salire, affacciandomi dalla finestra del bagno per spiare mentre si attaccano alla vita nelle mammelle della loro meravigliosa e giovanissima e selvaggissima mamma? o a tagliare le carote per la mia cavalla che è anziana e non riesce a spezzarle e mi dice che se non gliele taglio è inutile che gliele porti? già. 

come mai utilizziamo in modo indiscriminato e irrispettoso la parola capisco? sempre, qualsiasi cosa ci dicano gli altri, ci raccontino di sé, dei loro guai, problemi, tristezze, felicità, perdite, dubbi, fatti, cose, città, animali… tutto. abbiamo sempre la prontezza di dire ti capisco, pure con quel tono affranto da fiction. ma siamo veramente certi di comprendere? di capire noi stessi, prim’ancora che gli altri? e quindi solo poi gli altri? chiediamocelo, io per prima, che secondo me sarebbe una delle poche domande utili assai da fare. e impariamo ad abbracciare senza toccare.

bi

poscritto: toglietemi pure il ciao, io a me lo toglierei. infatti comincerò a dirmi ciao allo specchio, per poi togliermelo, tipo. sarà terapeutico per essere meno come sono un po' più come non sono e vorrei essere.

[immagine tratta da internet: c'è scritto ego, non eco.]

martedì 19 giugno 2012

trentotto anni e cinque giorni





a trentotto anni e cinque giorni so che:

due lune nuove in gemelli mettono in subbuglio anche i morti viventi: una c'è stata il ventuno maggio, e pare che siamo tutti sopravvissuti più o meno alla grande, l’altra è proprio oggi e io già da ieri ho sclerato in giro, fatto le pulizie a fondo nella cucina e nel bagno, la lavatrice dei colorati, ho messo la copertina di ikea bianca superleggera, ho sudato e detto un sacco di parolacce, ho avuto a che dire per un po' di cose, mi sono alzata con il piede sinistro. però ecco: la luna nuova resta sempre la luna nuova! quindi godiamocela.

le mie motivazioni le valuto prima di quelle altrui. cioè: tu puoi spiegarmi tutto quello che vuoi e va bene e ti ascolto e ti sorrido anche e occhei, ma in primis tengo in considerazione me e le mie aspettative, poi vieni tu e non te ne preoccupare che non sono diventata un mostro, ma manco uno zerbino con la scritta benvenuti, con tutti che ti calpestano e tra l'altro sporcano. beninteso.

cenerentola è stata una povera martire, una sfigata, una che ha pulito e ripulito e ha avuto due stronze, anzi tre, che le inzaccheravano di schifo le giornate. be’, io al suo posto me ne sarei strafregata del principe celeste sbiadito e della zucca e della scarpetta di vetro (che tra l’altro si rompe) e me ne sarei andata da quel dì e ciao!

il polline macchia irreversibilmente il cotone candido, penetra negli strati di tutte le maglie che puoi avere addosso e giunge fino alla pelle diafana (la mia, appunto). e manco lì si leva: tinge più delle tinte che tingono forte. morale? ho lavato, rilavato, strofinato, pregato e invocato la vecchie madri che usavano la cenere, ma  (pare) niente: signor polline giallo sciocching sta lì e gode di ottima salute.

se sei ironico sei anche intelligente e brillante e se sei autoironico hai accesso alla parte migliore di te e hai vinto (che poi, si vince qualche cosa?).

deve passarmi la voglia di lavare i piatti di plastica solo perché mi piacciono tantissimo: che li ho comprati a fare? sì occhei, sono coloratissimi, quadrati, bellini bellini, quelli della festa che mi rode buttare dopo averli sfruttati... ma sono di plastica: non si lavano! e basta. (io un paio li ho lavati... sssh, però).

i vicini nell’epoca post-moderna dovrebbero chiamarsi lontani, perché il vicinato si stringe con affetto e solidarietà soltanto in piccole realtà, ma non nelle grandi città intelligenti e civilizzate come le nostre. che chiamo a fare vicino uno che mi fa un favore a rispondermi al ciao! e ha sempre lo sguardo storto e il muso fino a terra e allarga le tende proprio quando io devo annaffiare i fiori la sera, così se cade l’acqua può sbraitare contro di me a voce alta nel suo fottuto balcone, come i peggio maleducati? io lo chiamo lontano, non vicino.

gli animali ripongono in noi una fiducia pazzesca, di quelle che da un bipede sapiens, femminile o maschile che sia, te la puoi quasi solo sognare. e lo fanno gratis, termine ormai più raro della benzina a pochi euro.

poi ci sono i cani, che scodinzolano e fanno le feste e accarezzano l’ego mastodontico che uno ha: quello per cui il mondo gira intorno a sé e quindi il cane ti appaga, appunto. poi invece conosci il mondo gatto, quello per cui nulla nella vita ti è dovuto e ti accorgi che non hai più bisogno che uno ti scodinzoli per amarlo: lo ami perché sì e basta. si chiama amore incondizionato, qualcosa di molto sconosciuto, per cui sarebbe terapeutico per tutta l’umanità avere un gatto (che pure qua attenzione! avere non è un possedere).

la seconda sveglia alle sei e quarantotto ha il suo perché: se lo scoprite per conto mio, provate a spiegarmelo, poiché io al momento mi sento solo una pazza disadattata.

voglio rileggere fontamara di ignazio silone, perché quando l’ho letto mi annoiava e adesso mi risucchia, perché parla degli abruzzesi miei, perché dice una grossa, grossissima cosa importante scritta a chiare lettere: "un cittadino ed un cafone difficilmente possono capirsi". ed è così ed io mi sento cafonissima ed è meraviglioso e non mi importa un fico secco di sforzarmi di capire questi benedetti cittadini... e sto.

mi sento molto più a mio agio ora che sono una trentottenne di quando ero ventenne ed è una sensazione bellissima. e a quarantotto sarà ancora meglio, perché la vita è un crescendo.

quando il paziente guarisce non diventa impaziente, ma magari impazzisce, perché è guarito. e comunque i riflessi sono tanto importanti, quanto lo sono le immagini dai quali nascono e il dispositivo che li crea. fidatevi.

l'unica cosa veramente vera che esiste nella realtà vera e tangibile è una e solo una per davvero, perché ce l’ha proprio nel diennea: è l'aloe vera.

e una bella canzone con un video fantastico, a questo punto, ci stanno tutti.

bi

giovedì 14 giugno 2012

in the mood for bi-day




menu:

tanti colori tutt’intorno, parei orientali, due indonesiani, una tovaglia rosso forte e caldo, amiche in ordine sparso piene di sorrisi e calore e affetto.
un bell’aperitivo colorato e molto arancione in una brocca di tutto rispetto, con bamboline sorridenti ed impertinenti conficcate in minuscole forme di caprino alle erbe provenzali, pizzette de noantri, quadratini geometrici di frittata con le zucchine dell’orto, crudi di pesce affumicati soffocati dalla rucola (altroché letto, coperta proprio), tartine arcobaleno bell'e buone, bicchieri lilla, piattini rosa posate blu elettrico.
liberamente sdraiate in ordine sparso, ma gentilmente circolare e senza troppa regolarità e simmetria, odore di casa di sempre, chiacchiere incrociate e risate, tante risate. 
pasta fredda pesto e pomodorini, laddove il pesto è quello buono fatto dalla nonna, non la mia che non c’è più, ma sempre una nonna ed ecco che il pesto ne giova e noi pure e le orecchiette ci sguazzano dentro felici e si sentono più orecchiette di sempre.
tre insalate molto capricciose e un po’ così: noci dorate che abbracciano spinaci e scaglie di parmigiano reggiano a schiarire quel verde bosco, pinoli che solleticano la valeriana inasprita e risvegliata dal pompelmo rosa, olive nere infornate (e non quelle di gaeta, come dice la mia superamica r. che percarità!) che si danno la mano con l’arancia un po’ passata e tanto finocchio, ma non uno qualunque che la mia amata m. taglierebbe così come viene, cioè a semplice finocchio proletario, ma ben sfilettato a julienne, altroché!
tre insalate da mangiare nelle scodelle quadrate gialle e verde acido fluo e rigorosamente in plastica, perché di lavare poi tutti quei piatti proprio non si può.
- i piatti piani viola e fucsia non sono per l’insalata, ma per i formaggi e la carne!
sia mai che non si capisca che sono stata quarantacinque minuti a scegliere le scodelle di due colori diversi perché sì, l’insalata nella scodella è più buona e basta.
la carne poi è un altro regalo di r., l’ha fatta lei: un buonissimo vitel tonnè, sì quel vitello tonnato che non è pollato, ecco.
buono, strabuono, da bis e anche di più, che a. se n’è portata una manciata a casa per gustarselo oggi a pranzo.
alberelli di pizza, pizza a quadratini imbustata e un po’ unta di quel sapore di scuola, due formaggi cotti: una scamorza improvvisata e anarchica con prosciutto delle montagne mie e un brie copiato ad a. con pomodorini e paprika dolce.
se non fosse che poi mentre stavo lì a prepararlo, presa dalla mia stoica fretta e dalle mani piene di dita, afferro l’altro, non lei paprika dolce, ma l’altro rosso tra le spezie: sì, lui lui, peperoncino!
- oddio dannazione cavolo stracavolo ho sbagliato!!!
e manco poco: giù lì ad inondare quel povero brie, implorante che la smettessi quanto prima, di dispettosissimo e rossissimo peperoncino.
e tutto ciò dieci soli minuti prima che arrivassero le altre…
- e adesso?
il terrore, avevo il terrore stampato in viso.
- e adesso si lava.
e r. mi toglie dalle mani piene di dita le ciotole antiche, leva tutto, lava tutto, che solo lei sa come si fa che io ero impietrita e inebetita come solo io so fare, e già.
tutto lavato.
prendo la paprika, ma stavolta non mi sbaglio: è lei lei, proprio paprika!
è tutto buonissimo e coloratissimo e mangiamo senza seguire un ordine logico, perché come si sa io proprio sono illogica di mio e la cena mia è così anche lei.
risate a più non posso, parole riproducibili e riferibili, altre proprio no! che sono segreti che manco morta ammazzata riferirai a chi lì in quel momento non c’era.
i segreti sono segreti e punto.
la luce delle lampade, quella messicana di papà e l’altra marinara di mamma, la luce delle stelle della luna in ariete e del sole in gemelli, i miei proprio miei, ma soprattutto la luce loro, delle mie amicissime del cuor, che è diventata la mia, e la mia che è passata a loro.
a loro, tutte, e a sister mia adorata va il mio g.r.a.z.i.e. urlato al vento e ai monti e ai sette mari, per una festa memorabile, fantastica, super festeggiata da baci tanti e abbracci pure, e poche ore di sonno che chi se ne frega: il compleanno viene una volta sola e i trentotto ancor di più.

vi adoro,
bi

martedì 12 giugno 2012

dante e virgilio al supermercato

ciao sciainieppipipol.
fare la fila alla cassa di un grande pubblicizzatissimo e famosissimo supermercato ha il suo perché.
tipo ieri, un lunedì come tanti altri, dopo nove belle orette di lavoro, un po’ di sano traffico sotto un sole velato e manco tutto questo ché, leggera afa da smog e non proprio da giugno.
tanta gente, troppa gente e pochi cestini con le rotelle disponibili.
riempiamo il carrello con un sacco di roba superbuonissima, perché domani è tredici e io ho fatto un menu di tutto rispetto e cucinerò e farò una tavola tutta dedicata a me.
insomma, lo riempiamo, plurale perché mi aiuta la mia cara robi-dalle-mille-insalatone-o-forse-più: lei è tutta concentrata in quel del supermercato, perché è evidente che sia un’assidua ospite.
ci si gira con disinvoltura, a testa alta e con fierezza, non resta mai perplessa e ogni tanto farnetica una delle sue, anzi nostre, stranezze.
di contro io proprio no, non sono un’assidua, piuttosto me ne vado all’alimentari un po’ sfigato sotto casa, perché sono tremendamente pigra e pure abitudinaria e tutta quella gente mi fa claustrofobia, quella delle sei e mezzo del pomeriggio al supermercato plurimarca e megagalattico.
ma io lo so, lo ammetto, evito e mi faccio i fatti miei.
sì, sembriamo proprio dante e virgilio, che se la fanno con gli abitanti dell’inferno, impegnati nel loro ingegnosissimo contrappasso.
e allora il cesto con le rotelle è stracolmo di tutto e ci avviciniamo alla cassa.
ma solo dopo che ogni tanto la mia virgilia mi avesse detto tre o quattro volte:
- oh! ci sei? che guardi? a che pensi? vuoi prendere altro?
ed io non lo sapevo, non è che stessi pensando a qualcosa in particolare, mi sentivo soltanto un po’ risucchiata da quegli scaffali, dalla musica alta e dai carrelli che non rispettavano la precedenza di destra.
per non parlare della fila indiana e dritta alla cassa: un mondo incredibile!
c’era un ragazzo molto alto e molto magro, con in mano un pezzo di parmigiano, una cotoletta, una busta di lattughino e il latte fresco. senza busta di carta portata da casa.
aveva un pantalone blu scuro e una camicia classicissima azzurra: secondo me fa tipo l’informatico.
poi c’era una ragazza molto mora con i capelli lisci dietro di noi, aveva con sé sua figlia, che guardava distrattamente e con una sottile aria di indifferenza, tre o quattro cose con sé, ma non ricordo quali.
mi ha passato la busta alla cassa, ammiccando un sorriso teso.
al mio
- uh, grazie!
pieno di sorriso e gratitudine non ha neanche risposto e si è voltata a destra.
forse non aveva tempo: dicono tutti di non avere tempo ultimamente, magari anche lei.
io invece no, il tempo lo trovo. eccome.
quando e se desidero trovarlo, ovviamente.
magari mi fisso davanti ad uno scaffale e sembro una disadattata, una che sembra guardare ipnotizzata un buco nero e invece è solo lo scaffale delle merendine, ma non lo sono in realtà e penso che i disadattati siano gli altri: quelli che non hanno tempo.
mentre aspettiamo, un po’ spostata a destra ce n’era un’altra: fisico tirato, camicetta nera dentro ai pantaloni sempre neri, stivali alti ad avvolgere gambe toniche, capelli nero corvino e carnagione molto scura.
in fila alla cassa, grande borsa griffata sulla spalla sinistra e ipad acceso nella mano destra.
lo scorreva e lo scorreva e lo scorreva e lo scorreva…
dev’essere un’esperienza entusiasmante connettersi con l’ipad mentre sei alla cassa del supermercato, o no?
cioè, mica è detto che devi farlo soltanto mentre sei a lavoro, o a casa comodamente sdraiata sul divano verso le undici di sera, o in biblioteca, o nella sala lettura dell’università dove tutti sono in religioso silenzio, o mentre sei in viaggio sul frecciarossa.
no, alla cassa del supermercato alle sette di sera di lunedì è più fico, non c’è che dire.
comunque c’erano anche un marito e una moglie molto carini: si vedeva dalla tenerezza negli occhi di lui e dalla cura con cui le spingeva il carrello pesante che fossero sposati da molto tempo e si amassero da tanti anni.
lei era un po’ tonda e sicura di sé, certissima di cosa ci fosse da prendere nei ripiani e di cosa fosse proprio inutile, mentre si aggirava incurante e distratta nel reparto della frutta, perché quella si compra fresca il sabato mattina alle otto al mercato.
lui aveva il viso di uno che fosse certo che sua moglie non gli avrebbe mai comprato la pasta barilla che a lui non piace proprio, ma l’altra che non si spezza e resta bell’al dente e condita con il sugo di sempre.
va bene, oggi il mio frigo scoppia di salute: non è mai stato così paffuto e pieno e affollato di cose che si parlano e chiacchierano del tempo un po’ così così e di domani sera.
e io pure aspetto con ansia e un sorriso da ebete domani sera.

bi




"hope is love
love is power
dreams are revolutions
soul is freedom"


illustration by matheus lopes

venerdì 8 giugno 2012

versi



sono fisicamente confusa e mentalmente stordita.
ovvero non potrei stare meglio, e voi?
bella la vita, no?
chi l'ha detto che io debba far visitare la mia macchina ultra dodicenne e fortemente chilometrata perché ammalata?
si sente male all'altezza della pompa della benzina ed è pure una ricaduta.
puzza... faccio il pieno e sento per i primi cento chilometri un odore putrido di tecnologia obsolescente e roba che inquina mente e naso.
e lo pago pure caro marcio questo liquido che odora di morte.
mi diranno che tranquilla, non è grave, è una valvola o una guarnizione nascosta in un limbo lì dietro, una roba da poco così che sono duecento euro e via.
bella la vita, no?
chi l'ha detto che io debba pulire un giorno sì e uno no la terra nel mio minuscolo balcone, manco fosse un ettaro di orto sinergico?
una merla femmina, molto grigia e molto bella e molto tonda, con il becco molto lungo e molto affilato, le zampette molto prensili viene a prendersi la terra nei miei vasi, molta terra, un giorno sì e uno no, con una precisione quasi maniacale e ormai da tempi antichi che sono già storia.
semina terra con molta gioia e senza parsimonia e canta e suona e ride e scappa. via.
il tutto, molto.
io torno molto stancamortammazzata, spalanco le finestre alla vita della quiete e del non lavoro e trovo quel regaletto molto gradito e marrone irregolare.
mica la posso sgridare: lei ci campa pure con la mia terra, però magari se facesse meno casino ne sarei più felice, molto.
bella la vita, no?
chi l'ha detto che io debba vedere certe facce mattutine che lasciamo stare, quelle che manco buongiorno puoi dirgli sorridente che ti inaridiscono e ti seccano la lingua e le radici e ti fanno pure venire i capelli bianchi, così all'improvviso e in un attimo?
e anche sentire voci che si alzano per discorsi inutili e manco in italiano decente, gente che si scanna per uno stop dimenticato, altra che non ti fa passare e prosegue dritta come se il tuo corpo e il tuo rottame di auto non esistessero proprio, vicini che sono troppo vicini e amici lontani che sono troppo lontani?
bella la vita, no?
chi l'ha detto che il postino non suoni più nemmeno una volta e ti lasci la cartolina della raccomandata, che tu devi andare a ritirare all'inferno postale, perché sì: a lui non andava di citofonarti e ha fatto finta che non ci fossi e invece c'eri, eccome?
bella la vita, no?
chi l'ha detto che non sia fico stendere due lavatrici alle dieci di sera, sotto un romantico e solitario chiaro di luna calante in acquario, perché prima non riesci?
esatto! e chi non ha mai sognato di annaffiare i fiori spergiurando e pregando tutti gli dei e i santi di tutte le religioni del mondo e di tutti i mondi altri, affinché l'acqua (pulita) non cada accidentalmente sopra la tenda da sole di quello di sotto, che è proprio un tipo meravigliosamente cordiale ed educato e gentile e sorridente come un grizzly incazzato e affamato e maschio?
bella la vita, no?
chi l'ha detto che lo stomaco non ti debba pulsare dal dolore alle undici di sera, quando finalmente ti sei appena coricata distrutta dalla indigeribile leggerezza della giornata, e gridarti:
- che.diamine.ti.sei.mangiata.stasera?.un'intera.discarica?
bella la vita, no?
chi l'ha detto che il lavoro nobiliti l'uomo che io voglio troppo conoscerlo costui e capire cosa si fosse bevuto e come e quanto e con chi?
evidentemente non sapeva né il significato di lavoro né quello di nobilita, ma ora con google e con copia e incolla non avrebbe più problemi di sorta.
e il bello è che c'è chi gli dà pure ragione!
ma magari è uno di quelli superfortunati, che hanno fatto della propria passione il proprio lavoro.
bella la vita, no?
chi l'ha detto che il mio attuale capo abbia ragione quando mi dice che scrivo troppe email, che il tempo sprecato per comunicare per iscritto lo potrei utilizzare per delle cose più urgenti (urgenti secondo chi?) ed importanti (importanti secondo chi?), mentre un altro capo da un'altra parte tempo fa mi aveva insegnato che no, per iscritto bisogna comunicare robe di lavoro, e come se no?
risparmierei tipo due minuti a botta, mica cavoli.
bella la vita, no?
chi l'ha detto che fragile sia una bella parola?
è inflazionatissima, dovrebbero tutti snervarsi al solo sentirla, come quando uno dice:
- sai, sono una persona fragile.
oppure (quasi peggio):
- ah, io sono una persona solare.
fragile e solare, solare e fragile: ma che palle mortali!
bella la vita, no?
chi l'ha detto che la gente non debba travestirsi per mostrarti l'angelo che vorrebbe essere, celando in verità il diavolo che è nel profondo di sé?
ecco, tu travestiti da chi ti pare che io sono troppo impegnata a fare me stessa per spogliarti e capire chi tu sia in realtà, capito?
che poi invece lo capisco benissimo, perché ormai percepisco chiaramente i sentimenti degli altri, molto al di là di quello che dicono e anche quando non vorrei. e punto.
travestiti pure da femminista, se ne hai voglia, tanto io lo vedo lo stesso il tuo alone da maschilista che ti fa blu scuro e pure fluo, che va molto di moda.
bella la vita, no?
chi l'ha detto che chi fa ironia è stupido e non è elegante e non fa l'intellettuale ed è poco serio e scrive male?
l'ha detto uno che non sa ridere di sé e per il quale, dunque, la vita non può essere bella.

ps: l'avevo detto nel titolo: versi, come quelli che farebbe una cornacchia.

bi

giovedì 7 giugno 2012

la verità è che mi manca la sedia del papa

la verità è che mi manca da matti fare la sedia del papa.
uno dei miei cugini metteva la sua mano destra nella piegatura del proprio braccio sinistro (all’altezza del gomito), poggiando la mano sinistra nel braccio destro dell’altro.
l’altro faceva lo stesso, andando a posare la propria mano sinistra nel braccio destro dell’altro.
a me spettava la cosa più bella di tutte: montare sulla sedia che si veniva a formare da quel crocevia di braccia dei due.
mi ci accomodavo tutta emozionata e abbracciavo quelle due pesti legandomi intorno al loro collo.
mi sentivo un re, più che un papa, e tutto era meraviglioso da lassù.
un’altra cosa che mi manca è pranzare ai giardini dell’eur, di fronte al lago.
mangiavo una specie di minestra dal sapore sconosciuto al mondo e noto soltanto a me, dentro una scodella verde chiaro in plastica, sigillata da un coperchio bianco trasparente opaco.
in quel modo pure una cosa del genere era buonissima e odorava di tenerezza e cura, mentre mia madre cantava una canzone sotto voce, spostando i suoi occhi dalla mia fronte, agli occhi, alla bocca e portando il cucchiaio con la minestra verso la mia bocca già inzaccherata.
la canzone diceva:

la postina della val gardena
bacia solo con la luna piena
uno a te, uno a me
yuke-lì, yuke-lì oilè!


mi mancano tutte le nostre sere dopo cena nel suo letto, io e lei da sole, qualche minuto prima di passare al mio: lì mi insegnava le preghiere e tutte le sere le recitavamo insieme, strette in un abbraccio profondo.
ancora non sapevo scrivere, ma già sapevo tutte le preghiere a memoria e soprattutto aspettavo il momento di dirle con lei, perché quello era un istante solo nostro e di nessun altro.
a me poco importava lì per lì il significato delle nenie che ripetevamo insieme, il fatto era che lei mi stava insegnando a pensare e pregare per qualcun altro, oltre che per noi.
sì, sono certa che lì mia madre mi abbia fatto capire il potere del pensiero e della raccolta con me stessa, qualcosa a cui non rinuncio mai ancora oggi e nemmeno per una sera.
mi manca anche portare mia sorella sul seggiolino della bicicletta, era troppo piccola per pedalare da sola in una bici tutta sua.
me la caricavo sulla mia dicendole:

- mi raccomando, apri le gambe, altrimenti ti si incastrano i piedi e voliamo per terra!

e lei ubbidiva e non si lamentava mai, neanche quando le si stancavano troppo le gambette ciondolanti, seduta sul quel seggiolino rosso legato dietro di me.
oppure lo mettevamo davanti, sul manubrio, ma io non ero abbastanza alta e non riuscivo a vedere bene e rischiavamo di appiccicare i musi addosso a un muro.
rideva, rideva come una pazza! e io con lei.
mi manca togliere il bicchiere grande del vino a nonna anna: lei se lo sistemava sempre a tavola ed era diverso dal nostro.
cioè lei era l’unica ad avere quel bicchiere panciuto e tondo a fiori, perché noi tutti ne avevamo uno trasparente con delle palle arancioni.
quindi stonava quel bicchiere diverso lì e io glielo toglievo e ne mettevo uno come il nostro, suscitando la sua intolleranza.

- ma perché devi cambiarlo? il mio è questo, perché c’entra più vino...io ne posso berne solo un bicchiere!

mi bacchettava stizzita e in abruzzese, mentre io me la ridevo sotto i baffi, certa che la sera successiva avrei fatto lo stesso: le avrei di nuovo cambiato il bicchiere.
mi manca sentire mio papà suonare il violino ed impartire le sue lezioni di musica a quei bambini più grandi e più alti, dai quali io mi nascondevo per vergogna.
li interrogava e loro a volte tacevano, altre volte sghignazzavano l’un l’altro del fatto che non sapessero dargli le risposte che voleva.
poi chiamava me e io arrivavo tutta impettita e lui mi diceva:

- barbara, dicci le note in scala per favore...

e io le sapevo bene, me le aveva insegnate proprio lui, e gliele dicevo sentendomi bravissima ai suoi occhi verdi e fieri.
e mio papà sorrideva soddisfatto del fatto che io le sapessi e loro no.
e io del fatto che lui lo fosse.
non so oggi cosa significhi essere genitore, cosa sia giusto fare e dire e non dire e non fare.
ma una cosa è certa: farò in modo che i miei figli possano raccontare ai loro, un giorno, della bellezza della sedia del papa e dei giochi fatti con le mani e con le braccia, della minestra mangiata al laghetto e della canzone cantata dalla loro mamma, delle preghiere della sera fatte insieme e poi da soli e della magia del  raccoglimento in se stessi, di sfrecciare insieme sotto casa su una sola bicicletta, di ridere dei dispetti fatti alla nonna e farò in modo che imparino quanto prima le sette note musicali.  

bi

(ringrazio la mia Di e i nostri discorsi, dai quali sono scaturiti questi ricordi meravigliosi).



[anche un bocca di leone così bella può nascere in una scalinata]

martedì 5 giugno 2012

"la disobbedienza è una virtù primaria"

"cari mamma e papà,
(in particolare papà che è quello che fa più resistenza)
io non capisco assolutamente il perché della vostra decisione!
vi scrivo questa lettera per chiedervi ufficialmente di darmi delle spiegazioni, mentre io vi spiego quali sono le mie motivazioni per iscritto, così non potete interrompermi e io riesco a farvi capire bene quanto importante tutto questo sia per me.
ho da parte ottantamila lire per farmi il biglietto del treno andata e ritorno e per tutto il resto, quindi non dovrò chiedervi neanche uno spiccio bucato.
ce l'ho dalle ripetizioni che ho dato a luca a giugno e non le ho mai spese, sono mie e posso decidere anche di spenderle per un sogno che ho, giusto?
io sto rinchiusa dentro casa da lunedì, non metto piede fuori casa perché non mi va, non vedo nemmeno i mie amici, sono triste da sbattere la testa al muro, telefono tutti i giorni a giulia ed alessia, che invece hanno la fortuna di stare ancora su, piango tutti i pomeriggi quando voi non ci siete, il mio unico desiderio è andare su per tre o quattro giorni per la festa di santa c.
si può sapere che male c'è in tutto questo?
che cosa mi potrà mai succedere?
non devo neanche dormire da sola, perché starò da alessia e lì ci saranno anche i suoi genitori: se volete potete pure chiamarli voi stessi.
la sera non faremo mai tardi, come sempre, e staremo dentro al paese, perché lo sapete benissimo che a noi non interessa andare in giro.
vogliamo soltanto stare insieme per la festa, che poi si ripete soltanto una volta all'anno e saremmo costrette ad aspettare un altro anno ancora.
la scuola riprende tra tre settimane e che senso ha che io stia qua in lacrime?
che senso ha?
lo capite?
non ha senso, infatti, visto che potrei stare quattro giorni lì.
con un solo gesto, potete rendermi felice.
il treno lo prenderò all'orario che volete voi e mi verrà a prendere il papà di alessia.
ditemi di sì, non vi costa niente, mentre a me costerebbe un grosso dolore restare ancora rinchiusa qui dentro da sola...
e non ditemi di non gridare quando discutiamo di questa cosa, perché se non acconsentirete la responsabilità delle mie grida sarà la vostra e basta!
io vi voglio un mondo di bene e lo so che anche per voi è così e so pure che vi preoccupate per me costantemente.
però né corro pericoli, né darò fastidio a zia.
perciò, facciamola finita di litigare e ditemi di sì.
che posso andare.
vi ringrazio tantissimo, mi rendete semplicemente la persona più felice del mondo.

vostra barbara"

29 agosto 1989

ho ritrovato questa lettera nel cassetto del comodino di mia madre, sotto due libri, una foto in bianco e nero, una sciarpa nera a fiori di seta.
è un foglio a righe un po' ingiallito, con pochissime cancellature, una scrittura tondeggiante e schiacciata da liceale.
partii con un regionale il giovedì successivo e tornai il lunedì pomeriggio.
vinsi io.
come in tante altre mie battaglie di primogenita ribelle contro i no perentori e cupi di mio padre.
e contro quei silenzi assordanti di mia madre.
perché "la disobbedienza è una virtù primaria".

bi 



[immagine tratta da internet]

lunedì 4 giugno 2012

parlami dell'universo




lasciate stare che qui a scrivere sia una come me, non sempre seria o quasi o comunque una un po' così e neanche famosa.
scrivere è un'attività ultraterrena affascinante e mistica e lo dico in generale e penso pure che ti spalanchi nuovi percorsi verso direzioni espanse ed infinite, niente che sia presente, passato, futuro, cioè niente che abbia bisogno del tempo per esistere.
parlo di qualcosa che esiste in quanto espansione ed energia e punto.
constatiamo ampiamente e tutti i giorni che nella società sguazzino impunite e senza vergogna alcuna tutta una serie di mediocrità, perbenismi, terrorismi, stragi, catastrofi, cattiverie, narcisismi, violenze, manie di persecuzione, stupidità, morti viventi, vedenti che non vedono, chiusure, soprusi, falsità, faziosità, sprechi, morti, bui e mo basta!
basta, mi sono stufata di queste cose create gestite divulgate sponsorizzate normalizzate dall'homo sapiens sapiens, che presto si estinguerà se non deciderà di cambiare radicalmente e non avrà la capacità di trasformarsi.
le donne sapiens sapiens pure, quindi anche noi abbiamo il compito gravoso di trasformarci e meglio pure, perché come al solito ci sarà un homo lì bell'e pronto a ricordarci che abbiamo meno diritti in quanto donne e guadagniamo di meno eccetera.
io sogno esseri umani non più disumani e un po' come arturo brachetti, nascosti come lui dietro un ombrello viola o un mantello nero, tutti pronti a mostrare davanti all'incredulità di un pubblico innamorato e stupìto la loro camaleontica magia.
cambiamento is the answer!
un modo per progredire e senza fretta e senza noia.
do anche ragione a chi sostiene che sia tempo ti ridare dignità alle parole che ci mettiamo in bocca, per costruire prassi differenti e nuove: perché sì, le parole sono azione e l'azione produce parole, in un processo incantevole e misterioso e dialettico, di cui ciascuno è partecipe.
le parole da sole non bastano (e a dirlo è una che costruisce idee per poi smontarle e traslocarle e rimanda cose da fare a dopo il dopodomani di domani l'altro...).
ma anche la azioni da sole non bastano, perché essere ciò che si fa ti inchioda all'apparenza e al corpo e ti fa perdere tutto un universo personale e interiore che non fa, ma è materia pensante e spirito.
la luna è piena, proprio oggi, mentre dall'altra parte dell'emisfero si sta compiendo un'eclissi parziale di luna.
poi tra due giorni venere danzerà di fronte al sole, per farlo di nuovo (e solo presumibilmente) l'undici dicembre del duemiladiciassette.
capito la fantasticità di tutto ciò, invece di tutte le cazzate che diciamo e ascoltiamo in ventiquattro ore e sette giorni su sette e via dicendo?
bene, la risposta sta nell'universo. per me.
sia nell'universo che siamo e abbiamo dentro e ci chiede di affacciarsi, mentre noi poveri stolti incapaci e limitati continuiamo a dirgli che no, è meglio che resti chiuso perché tira vento e le previsioni dicono che pioverà.
sia nell'universo supergigante che sta fuori e ci guarda dall'alto e tutt'intorno e manco ci dice quanto piccoli piccoli siamo (e lui è l'unico che potrebbe farlo a ragione).
certo non è che io smetterò di comprarmi collane e maglie sbrindellate, dire parolacce, essere intollerante, snervarmi, intestardirmi, mangiare roba fritta, far cadere pericolosamente l'olio, mettere le converse puzzolenti, andare a centosessanta, bere vino, lamentarmi, sbuffare, fare il dito medio, imprecare contro i preti e amen.
diciamo che cercherò di limitarmi, ecco.
e di fare tutto questo con una certa eleganza ma senz'etichetta.
ognuno per sé si cerchi e trovi e dica e scriva le parole della sua vita, che saranno senz'altro belleebuone, perché se ce le metteremo in bocca non saranno che così e non faranno schifo, se no è come se ci mangiassimo la cacca e basta.
così facciamo prima e siamo tutti più contenti e liberi e molto più democratici della democrazia.
io posso solo limitarmi a dedicarvi questa canzone, che, a prescindere dai gusti musicali di ciascuno, vi vuol far solo raggiungere da leggerezza, gentilezza e da parole che sanno di infinito.
se non ci sentiamo in questi giorni, sarà solo perché sono troppo impegnata a seguire il transito di venere e vedere che vestito e rossetto si è messa per sedurre il sole.
pure voi, spero.

bi




parlami dell'universo
di un codice stellare che morire non può
di anime in continuo mutamento
e abbracci nucleari estesi nell'immensità
dove tu mi stai aspettando adesso

dentro a una vertigine che danza
e ci porta al di là del tempo
sino a ritornare sulle labbra
l'incanto è lo stesso
perché niente è cambiato
anche se tutto è diverso

cantami dell'universo
di un codice stellare che mentire non può
cadono nel vuoto in un momento
miliardi di segnali
che accendono l'immensità
dove tu lo sai che poi mi perdo

dentro a una vertigine che danza
e ci porta al di là del tempo
fino a ritornare sulle labbra
l'incanto è lo stesso
perché niente è cambiato
anche se tutto è diverso
perché niente è cambiato
anche se tutto sembra diverso

miliardi di segnali che accendono l'immensità
dentro a una vertigine che danza
e ci porta al di là del tempo
fino a ritornare sulle labbra
l'incanto è lo stesso
e tu sei
dentro a una vertigine che danza
e ci porta al di là del tempo
dentro a una vertigine che danza
e ci porta al di là del tempo


cristina donà, universo