mercoledì 31 ottobre 2012

svestiti e andiamo

svestiamoci di noi e vestiamoci da dolcetto.
un morbido bonbon al cioccolato con glassa autunnale, pieno d’estate tramontata e di sazietà.
il ripieno è la nostra forma.
profumata, gustosa, vellutata, fresca, densa eppure malleabile.
che dolcetto saremmo, se fossimo solo il bignè?

svestiamoci e facciamo la ruota.
in fondo tra la terra e il cielo sai che c’è?
il nostro salto, le nostre ali, la nostra metafora leggera, quel sogno ricordato di buon mattino, un bicchiere d’aria da sorseggiare in silenzio e il tempo che diventa una nuvola.
il superfluo è di troppo in autunno, scansiamolo.

svestiamoci e teniamoci i colori, quelli sì.
l’autunno non è un marrone e non è un quando, guardalo.
è un arcobaleno che s’ingoia le ombre e le fa sue, le recita, le fa essere sostanza per un po' e poi le risputa, per riaccendersi più arcobaleno di prima.
è un come da fare come ci pare e desideriamo di più, ora che siamo dolcetti.

svestiamoci e mettiamoci scalze.
liberiamole, le radici, e lasciamole baciarsi coi funghi sotto il sole intimidito di novembre, ché quando torneranno ci diranno che hanno provato com’è fatto l’amore.
e ce ne daranno indietro quel po’ che ci parrà tanto.
è così che saranno pronte per invaghirsi di nuovo delle nostre scarpe.

svestiamoci e lasciamo casa nostra.
questo guscio che abbiamo scaldato, arredato, pulito, profumato, vissuto, respirato e pure dipinto di umori e giornate, di caldo e freddo, di senso e colpa.
non mi servono più le foglie, dice l’albero.
non ci serve più il guscio, gli rispondiamo noi.
perché vogliamo fare come lui.
lui lo sa che tornerà di nuovo verde.
noi sappiamo che torneremo di nuovo verdi.

svestiamoci e spalmiamoci di presente.
un liquido trasparente e cremoso che inizi con la p e che ci dia una direzione su cui posare i nostri piedi nudi e camminarci sopra, lasciando nuove impronte fresche per chi ci seguirà.
senza briciole, solo passi.
che passino e non siano più passati.

svestiamoci e incartiamoci di buono.
di parole croccanti da snocciolare, che ci facciano ondeggiare, leccare le labbra, spostare un po’ più in là e che ci suonino la canzone che a noi più piace. 
costruiamoci quella barchetta di carta fatta di un foglio candido e silenzioso e partiamo.

svestiti e andiamo.
le bambine come noi trionfano sempre.

bi

 

[immagine tratta da "pop surrealist": 'twins cocoons', ink on paper 2012]


venerdì 26 ottobre 2012

(torno subito, prima o poi.)

ci sono posti che inghiottono e posti che no.
uno di questi (sì) è piazza vittorio.
è una piazza che grida, quella, che diventa paonazza per quanto strilla.
e poi espira forte, forte dal basso ventre e innalza forti correnti d’aria, con talmente tanta impetuosità, che poi, quando inspira, si porta dentro le cose e le inghiotte.
ci passo.
e vengo travolta da tutto un turbine di voci, che corrono insieme in direzioni uguali e contrarie, si scontrano e proseguono cieche, si fanno vento tra loro e sembra l’inerzia della corrente a spostarle, non la loro volontà.
li guardo.
e sembrano un girone di dannati danteschi, che espiano colpe segrete con contrappassi indicibili e misteriosi, che si coprono il volto chinando il capo verso giù, molto giù, per paura d’esser scoperti dal primo forestiero che si ferma per forza al semaforo rosso, sempre rosso, rosso profondo e rosso per più di dieci minuti.
l’ascolto.
e tutta la piazza ulula di voci umane e disumane e inumane e intanto giro, giro ancora che non riesco a fermarmi, che tutto intorno ruota e si arrotola veloce intorno al corpo mio, che pare non avere più scampo.
sei mia, dice.
quel caos mi saccheggia dentro, mi penetra a fondo inesorabilmente, che io non mi sento più libera.
sono una forza centripeta, dice cupa.
sono forte di più, di più di te, dice cupa.
la assaggio.
e sa di grigio, di una cosa grigia e marcia che se ne frega del confine e lo sfonda, senza chiedermi il permesso.
sfonda ed entra e il gusto non mi piace, eppure non posso decidere di cambiarlo, io, quel gusto.
non puoi scegliere, mi dice.
l’annuso.
e mi si sprangano involontariamente le narici, sbattono per serrare l’unica via d’uscita che odora.
non ce la fanno, la serratura è troppo debole e le ante del naso restano aperte quel poco che lascia entrare un alito acre, caldo e disgustoso, che s’impossessa dei canali miei, intimi.
la tua intimità non è tua, dice secca.
la tocco.
mi insudicio le punte delle dita, diventano scure, un piccolo mare nero mi scivola sulle mani e cammina, cammina e sale.
sale pei polsi, mi tocca e non sono più io a toccare lei, la piazza.
non toccare, dice con un ghigno.
si nutre.
di anime.
è un luogo che mi prende a sé, per non risputarmi più fuori.
il vento si placa un poco, è stanco anche lui.
non mi piace questo al di qua, è un posto che non dona speranza e non mi fa stare bene.
non mi piace piazza vittorio, non mi piace.
non è per lei, ma per come mi sento io lì.
ma c’è un angolo che amo e che mi attrae.
è un giardino verde scintillante, una fessura che lascia fuori il mondo brutale e mi restituisce la pace e la libertà negata.
è un minuscolo al di là fatto di arte, che trasuda bellezza ultraterrena e mi ricorda che, sì, la metempsicosi è una dimensione possibile.

bi



[mentre l'ho scattata ho provato una vertigine, 
ma non è mica piazza vittorio.]

mercoledì 24 ottobre 2012

sulle cose a caso

io non credo al caso che capiti per caso.
il caso è fatto apposta e capita voluto, sempre e comunque.
come innamorarmi di un burro di cacao al miele, pallido e morbido come una nuvola su cui atterro dolce, che steso sulle labbra mi scarta le parole una ad una. c’è, eppure non si vede.
come ripensare a una vecchia bottiglia verde di seven up, alta, immacolata, di cui non ho mai saputo il nome del sapore, né l’ho mai toccato con il mio dentro. è sempre rimasto un liquido segreto da chiamare zup, con la zeta di zanzibar. e se lo avessi assaggiato, ora non avrei avuto la curiosità di immaginarmene il gusto, che così, inventato, mi pare mille volte meglio.
come ripercorrere una passeggiata fatta a parigi un martedì di settembre da sola, protetta da un elegante e sofisticato cielo grigio perla, perfettamente abbinato con i ritmi gentili e sottovoce delle stradine di montmartre, mentre calpesto ciottoli fatti di surrealismo e poesie. 
come stupirmi di fronte all’asimmetria che il mio viso disegna allo specchio: quella che ribalta l’introspezione del mio occhio destro sull'arguzia dell’occhio sinistro, il labbro destro elastico e agile sul sinistro rigido che non s’alza, il basso sopracciglio destro sul sinistro alto e slanciato. sono un po’ storta, in effetti, a guardarmi bene. per fortuna.
come spalancare con un gesto la finestra e trovarci l. che si sbraccia a salutarmi e dirmi dolce, come tutte le volte: bentornata, cara! con quelle sue guance piene di rose rosa, il corpo raffinato ed impalpabile e quei capelli come fili trasparenti e affusolati, annodati con arte e dedizione. sembra mia nonna. e lasciare poi allargata la finestra, per farci camminare aliti d’aria fresca per casa e farci entrare il suono delle campane delle quattro.
come volare su un’altalena che cigola più forte quando mi lancio verso l’alto e che risuona più piano quando tiro indietro le gambe con tutta la forza che ho, pronta a buttarle di nuovo tutte in avanti e lanciarle verso le foglie dell’albero di fronte. quello zeppo di fiori bianchi gonfi di odori spensierati ed estivi.
come ridere mentre cammino sui sassi dei giardini di ghiaia e li faccio scricchiolare, ci suono una canzone, ci affondo le scarpe e le ritiro su tutte impolverate, ci riempio le punte dei piedi e calcio su in alto tanti sassi mai uguali, mai.
come scorgere il volo scuro di un rapace all’improvviso, che mi disegna tanti otto sopra la testa, però alti proprio altissimi in cielo. è regolare come se stesse dipingendo un quadro o scorrendo come le note di un violino e ha un movimento silenzioso ed elevato, pieno di occhi penetranti come spilli infiniti e lontani. che è sempre e solo lui il primo a vedermi, mai io, e le sue piume bianche le vedo solo se scende un po’, che da lontano sembrano solo un nonazzurro.
come amare i cappelli di lana che mi coccolano la testa e me la carezzano, si prendono cura dei miei pensieri e li tengono caldi e al sicuro, li fanno scivolare verso il cuore, fino alla pancia, dentro l’anima e si fanno cappelli anche lì, giù in fondo. e scaldano ancora. 
non capitano a caso un abbraccio senza braccia, un bacio senza labbra, una carezza senza dita, una parola senza fiato, un pensiero senza testa, una frase senza parole, un pizzicotto senza tocco, un pianto muto e senza acqua, un dolore senza sangue, un ricordo senza immagini, un’immagine senza immaginazione, un amore senza brividi, un corpo senza membra, un grido senza pancia, una risata senz’anima, un orecchio senza tunnel, un desiderio senza nome, una felicità da raccontare.    

bi


[immagine tratta da internet]

venerdì 19 ottobre 2012

facciamo un gioco?



- facciamo un gioco?
- va bene…
- mi dici qualcosa di grande?
- grande è uno sguardo senza occhi che t’accarezza senza posarsi mai, si perde in un dettaglio e non si accorge dell’insieme.
- e qualcosa di dolce?
- un grande stuzzicadenti di legno chiaro e rotondo, pieno di bianchissimo zucchero filato sapientemente arrotolato tutt’intorno.
- dimmi qualcosa di tenero.
- la bambina se l’è fatto comprare indicandolo da lontano, ride, è soddisfatta e tutto a un tratto ci affonda il naso dentro, senza restare senza respiro.
- qualcosa di interessante.
- lei vive in un mondo pieno di capriole in avanti e all’indietro, libri con le figure da colorare e già colorate, alberi su cui arrampicarsi che la toccano con la resina, bambole da vestire con mille storie mai uguali, una stanza dai muri trasparenti.
- dimmi qualcosa di piacevole.
- le sue dita s’aprono e si chiudono su un ciuffo di zucchero e, pizzicandolo, ci restano attaccate. e allora lei se le guarda stupita e le lecca, una per una, e le compaiono delle domande in testa senza risposta.
- di storto.
- le sue punte dei piedi tonde e aggraziate si guardano curiose e si fanno compagnia, così lei si sente stabile e a suo agio. si sente gentile.
- di distorto.
- vorrebbero fargliele rimettere dritte, perché si aspettano che i piedi stiano dritti. il dritto è in avanti, dicono. invece per lei il dritto è farle incontrare e far sì che si guardino tra loro.
- qualcosa di fresco?
- indossa un vestito di cotone fatto con il collo rotondo e con dei grandi palloncini bianchi dipinti. la copre fino al ginocchio, così lei può saltare, correre, rotolarsi e anche parlare da sola.
- ora qualcosa di antico.
- i suoi appiccicosi denti da latte sono un po’ storti e ogni tanto lei li spinge con la lingua verso fuori, forte. le sue labbra sono molto rosa e un po’ sottili, parlano di animali e minuscoli fiori lilla fatti di cinque petali lisci.
- qualcosa di nuovo.
- cammina per la piazza e passa gli occhi agili dallo zucchero filato alle signore sedute sulla panchina in faccia al sole, che parlano del tempo che cambia e di quello che passa.
- dimmi una cosa triste.
- vorrebbe un cane, ma non si può. un giorno prende una cinghia non troppo lunga con un moschettone da una parte e va in cortile. “hai un cane, vero?” le chiede il bambino del quinto piano. “sì, sì...” risponde pronta.
- una cosa bella.
- prende bravissima al tema e suo papà le regala una banconota, anziché le solite monete. “è una, ma vale come tanti spicci insieme, così ti puoi comprare venti pacchetti di figurine”. va a scuola felice e le raccontano le storie dei bambini lebbrosi e li guarda negli occhi. lascia la banconota nella scatola sulla scrivania della maestra e torna a casa senza figurine. sorride.
- e una cosa dolorosa?
- sua nonna si ammala, è stanca e le sue gambe sono gonfie. gliene tolgono una, da metà coscia in giù. lei sta lì che le accarezza l’altra.
- dimmi qualcosa di reale.
- non ti basta?
- e qualcosa che vorresti dirle?
- non occorre. le dico cose tutti i giorni.

bi

[immagine di amanda cass artist]

mercoledì 17 ottobre 2012

il cielo è un sopra, la terra è un sotto.

il cielo è un sopra, la terra è un sotto.
come quando disegnavo una striscia azzurra con i colori a cera e mi macchiavo il bordo della mano di verde, perché avevo già disegnato il prato.
il sotto.
prima disegnavo il sotto, poi il sopra.
era un mondo dritto, il sottosopra era un salto ancora troppo forte.
ti va il sangue in testa, mi dicevano.
e io ubbidivo, lì per lì.
poi di nascosto lasciavo la testa ciondolare dal divano, le gambe in aria con i talloni che premevano sul muro, le braccia lunghe verso la testa.
mi capovolgevo.
e allora il cielo era un sotto, la terra era un sopra.
e più scendevo con i piedi, più arrivavo al cielo.
a calpestarlo, a sfiorarlo senza la gravità che premeva sulle punte.
lì sotto ci splendeva il sole e mi scaldava tiepidamente i piedi.
me li abbronzava pure, finché qualcuno veniva poi a disturbarmi.
il pavimento mi carezzava i capelli, mentre chiudevo gli occhi e me li immaginavo confusi in mezzo al fieno dorato, dorati pure loro.
testa in terra, piedi in cielo.
ti va il sangue in testa, scendi!
alzavano di più quella loro voce preoccupata, eppure il viso mio non era di certo violaceo.
forse vedevano quanto fossi scesa in basso coi piedi verso il cielo e quanto le punte sfiorassero quell’azzurro e quanto i capelli si rinfrescassero col marmo freddo del pavimento.
urlavano dunque per far arrivare la loro voce fino a lì.
giù in fondo, giù in cielo.
ecco che allora mi toccava rigirarmi, perché loro non erano pronti alla disobbedienza mia e al cielo sotto.
sotto doveva esserci terra, il cielo doveva essere un sopra.
non mi capivano, non immaginavano che la gravità potesse diventare universatile...
sarebbe bastato volerlo per non sentirsi più così pesanti.
la gravità universatile qualcosa lo tira giù, qualcos’altro lo lascia in alto, un po’ lo mette al centro.
cambia il pieno e il vuoto e lo dispone da sotto a sopra.
è nell’attimo prima delle cose che puoi girarlo sottosopra.
è in quel poco prima, nell'attesa, che si compie la giravolta e i sotto diventano sopra e viceversa. 
sicuro che un pavimento non possa essere anche un soffitto?
a testa in giù dal divano le cose avevano un altro sapore.
si creavano dei mobili naturali, come fossero nati spontanei e scavati nella roccia, bordature squadrate in cui potessi sedermi senza cuscini, fatti di solo muro candido e liscio, dove potessi poggiare comodamente la schiena e accavallare le gambe nude con ai piedi gli zoccoli di legno bucherellati, scalini che prima erano travi da poter oltrepassare andando al di là, quello del piano di sopra che diventava quello del piano di sotto, mentre io ero lì a sentirlo parlare e camminare sotto i piedi miei, così.
sarebbe assurdo non pensare alle assurdità.
sarebbe assurdo non capovolgere, non disobbedire, non vedere il mondo sottosopra, non accorgersene, non chiamare gravità universatile quella che pare solo gravità.
lo spazio non dovrebbe avere sponde.

bi

"un vaso in verticale non esiste, è necessario che cada per provare la sua stabilità.”
“un uomo che cammina ha bisogno di rispecchiarsi in un suo simile al contrario, per sottolineare il suo movimento.”
marc chagall, il mondo sottosopra

venerdì 12 ottobre 2012

siamo portatori sani di dati, noi.

siamo portatori sani di dati, noi.
tutti noi e dico tutti proprio.
siamo dei barcodes ambulanti, che, se ci dice bene, possiamo diventare degli opinion leaders e fare i lifecodes.
mettiamo che andiamo in profumeria.
spesso, che ne so, diventiamo tipo clienti affezionati, maschi e femmine non importa, perché ci serve il profumo, il mascara black resistente alla water, gli smalti dai colori sciocching, il dopobarba, i solari protettivi e altre cose di profumeria.
- vuoi fare la tessera? così a fine anno hai trenta euro da spendere in prodotti per ogni mille punti accumulati!
(sorride, è carina, ben truccata ed è convincente e poi comunque i punti hanno sempre quel fascino che solo le tessere a punti sanno esercitare su di noi).
da allora, ogni volta che andiamo lì, guardiamo gli scaffali, leggiamo le etichette, scegliamo i nostri prodotti, andiamo alla cassa e sfoderiamo la nostra personalissima tessera troppo nostra e sorridiamo.
felici.
come se te lo stessero regalando quel bendidio che ti pesa tra le mani.
mettiamo poi che andiamo a fare benzina.
e che siamo pigri ed abitudinari e osserviamo poco le cose attorno a noi, per cui ci fermiamo sempre allo stesso benzinaio, che diventa amico nostro e col quale parliamo del caldo afoso a luglio e del freddo boia a gennaio.
- vuoi fare la tessera? così a fine anno puoi sceglierti un regalo in base ai punti che hai accumulato!
e che facciamo, non ce la facciamo?
la tessera dal benzinaio amico nostro, che a gennaio lavora in mezzo alle intemperie e al freddo e al gelo, poveraccio?
e andiamo sempre lì e ci carica i punti e a fine anno ci sfogliamo contenti il catalogo e ci scegliamo l’ennesimo trolley, anche se ne abbiamo già che non si sa a cosa ci servano, ma non si sa mai, o il set di tazzine a fiori, al quale debbiamo comprare una mensola nuova, perché non abbiamo più spazio in cucina.
mettiamo ancora che andiamo a fare la spesa.
siamo intelligenti, perché mica andiamo in un posto a caso, ma compriamo pensando attentamente e guardando i cataloghi delle offerte della settimana e andiamo.
e comunque alla fine ci rigiriamo col carrello pieno e colorato dentro gli stessi due, tre, quattro supermercati al massimo.
- ce l’ha la tessera?
siamo alla cassa, cade il silenzio.
cioè, se non abbiamo la tessera al supermercato, non siamo n-e-s-s-u-n-o! è chiaro?
tanto che ci guardano male sia le cassiere sia le signore che prima prendono in mano la loro bella tessera e poi scaricano la spesa sul rullo della cassa.
siamo degli sfigati, che stanno fuori dal giro e dal mondo, capito?
alla fine ci infiliamo nel portafoglio la sesta tessera, che il portafoglio è più pieno di tessere che di fogli e soldi e santini e foto dei nostri cari.
insomma, direte voi, che c’è di male?
a noi piacciono le tessere e ci piace che quando entriamo in un negozio viviamo la nostra shopping experience in santa pace e sentendoci a casa, riconosciuti, accolti perbene, magari pure baciati e salutati con quei sorrisi pieni di gengive rosa ciliegia. no?
sì, basta che non ci scordiamo mai che siamo diventati (insieme alle nostre fiammanti ed evergreen carte di credito) dei portatori sani di dati.
sì, perché in profumeria stanno decidendo quali promozioni fare e cosa riassortire ed ordinare per l’anno successivo, dopo aver spiato i nostri consumi di un anno intero. occhei?
sì, perché il benzinaio capo, quello della casa madre che distribuisce la benzina e che la compra in oriente, sa chi e quanto e quando (a momenti) ricomprerà il suo super combustibile e per quanto tempo ancora, perché ci regalerà altri trolley di altri colori che, che facciamo, non ce li facciamo regalare, eh?
sì, perché i grandifratelli dei supermercati ogni santa sera delle trecentosessantacinque degli anni non bisestili sapranno cosa ciascuno di noi si è portato a casa, perché e percome e come lo cucinerà e perfino se ha scelto del vino più costoso che significa regalo-per-qualcuno. occhei?
siamo portatori sani di dati, noi.
tutti noi e dico tutti proprio.
siamo dei codici a barre.
tipo quelli che stanno sopra le confezioni di fette biscottate e di bastoncini findus. occhei?
siamo dei codici a barre pieni di dati e codici e (al limite) senza barre.
ma siamo sempre in tempo per farcele tatuare.

bi




[LizzyB vanity barcodes]

mercoledì 10 ottobre 2012

io ci penso, e tu? un monologo.




sono tutta pensiero e tocco poco le cose.
il tatto, dico, è l'ultimo dei sensi che sento davvero, e tu?
annuso molto e penso nelle viscere.
mi vedo espansa e diluita come un'aria fatta d'immaginazione e bolle.
costruisco.
me, poi il mondo intorno.
lo sai che una mela al giorno costa quasi quattordici euro al mese?
i proverbi dovrebbero essere aggiornati coi tempi, o no?
e la mela di oggi non sa più neanche di sole.
quand'è stata l'ultima volta che hai mangiato una cosa che sapesse di sole?
io il diciassette settembre: una manciata di more nere e mollicce.
trasudavano natura e odoravano di cervi maschi in amore.
e bramivano, pure.
quell'eco feconda ne aveva liberato i semi.
erano volati fin sopra le montagne.
mi hanno macchiato la lingua di viola.
l'hanno tinta di terra bagnata dalla pioggia autunnale.
sono tutta pensiero e difficilmente tocco le cose.
una volta sono stata al museo del lupo.
io amo molto i lupi, e tu?
lì c'era un'ampia botte di legno con un foro al centro.
devi infilare la mano ed indovinare cosa c'è dentro, mi avevano detto.
ecco, avevo iniziato a sudare.
dai, me lo immagino, gli avevo risposto, basta così.
ma lo fanno anche i bambini, su.
niente.
il mio corpo non ascoltava.
ho immaginato che lì dentro ci fosse il pelo di un lupo.
qualcosa di troppo sacro per essere volgarmente toccato.
lo era, mi avevano confermato.
lo vedi? non è sempre necessario toccare con mano.
ed io non sempre uso le mani per toccare.
le mie mani non hanno la consistenza che immagini tu, lo sai?
sono un po' così: vanno attraverso.
quando mi sveglio sono l'ultima cosa a svegliarsi e muoversi.
non sono mani fatte per il tatto.
loro sognano di fare altro nella vita.
sono una un po' appannata, e tu?
vedo bene, eppure anche appannato.
quando vado al mare m'ipnotizzo a contare le onde.
sono un'infinità impossibile da numerare.
il mare si agita ed il mondo da ogni parte s'immobilizza.
resta lì incantato ad ammirare i suoi ritorni asincroni.
movimenti che si rompono lì, in quel punto.
la montagna no, è tutta diversa.
sta lì, immobile ed immutabile ed io avverto il mondo che gira.
vorticosamente, tutt'intorno, di quei moti che mi scardinano l'equilibrio.
ho le vertigini e mi aggrappo con forza alla terra e alle radici delle rocce.
l'ultima volta no, non le ho avute.
il mondo girava e io ho cominciato a girare nello stesso verso.
vedi, mi devo arrendere alle volte, e tu?
sono tutta pensiero, io.
ti costruisco in testa, poi tutto il resto.
se non ci sei nella mia mente, non ci sei ovunque.
se io non sto nella mia mente, non sto da nessuna parte.
non è che penso e dunque esisto.
è che esisto e dunque penso.
è una questione di direzione.
e la direzione è opposta alla ragione e alla parte sinistra del cervello.
è una cosa destra, intesi?
destra.
la vita è fatta di vita, pensaci.
la vita non è fatta di morte.
la vita vive, la vita è verità.
è la mente che mente.
 
bi


[creazione di nicoletta ceccoli]

lunedì 8 ottobre 2012

vi racconto un segreto

vi racconto un segreto.
quando avevo sei anni ero una leader molto affermata in mezzo a molte donne più adulte di me, che io già chiamavo comunque vecchiette.
tutta colpa delle mie due nonne, a. e a.: una palindroma e del tutto simile a quell’ammusata e incazzosa di artemide, dotata come lei di arco e frecce e di una camminata da generale, l’altra apparentemente angelica e paffuta, con una piccola bocca come la signora minù e due setose gote rosse come le mele di biancaneve.
è così: dietro una leader seienne si celavano due grandi e grosse nonne di nome a. e a.
tutti i giorni alle quattro e mezzo, ora con l’una (se mi trovavo in un paese), ora con l’altra (se ero in vacanza nell’altro), mi armavo del libretto di preghiere e di una corona del rosario azzurro cielo e m’incamminavo con la nonna in chiesa, afferrandola stretta per la mano e trascinandomela dietro, tirandole il braccio.
- nonna, è tardi! le vecchiette mi aspettano e senza di me non si comincia.
e arrivavo lì: una nanetta con i capelli a caschetto, nient’affatto indecisa, che varcava la soglia della chiesa, avvolta dallo sguardo compiacente e gioioso delle vecchiette del paese.
- eccola, guarda che carina! così buona e bella e brava… oddio, quando c’è lei è tutto un altro pregare!
io le salutavo tutte con un cenno del capo rivolto prima a sinistra e poi a destra, ringraziandole della fiducia che riponevano in me per quel compito di preghiera, che le mie nonne mi avevano conferito, regalando loro il tanto atteso bel sorriso sdentato e affrettandomi a prendere posto, accelerando il mio passo da piccola napoleone.
andavo spedita a sedermi al primo banco della fila destra, sul bordo sinistro proprio di fronte all’altare, e portavo subito gli occhi verso il prete.
il vociare si interrompeva all’istante.
toccava a me.
cominciavo con il segno della croce e mettevo poi in fila tutte quelle preghiere che componevano il rosario, che sgranavo come le mie nonne mi avevano insegnato quando ancora non sapevo neanche leggere, e le vecchiette mi venivano dietro senza perdere mai il ritmo e senza errori.
la mia voce era chiara e sicura, sembravo nata per fare quello: farle pregare e farle sorridere.
e mi piaceva, sia farle pregare, sia farle sorridere, e loro ripagavano il mio impegno e la mia concentrazione facendomi sentire famosa ed importante: una piccola donna leader in mezzo a un mare di donne vecchiette.
le mie nonne erano gonfie di soddisfazione, il prete pure.
io ero quella più giusta per dire il rosario senza far addormentare nessuno, senza sbagliare, senza sbadigliare, senza scambiare l’ordine delle litanie, senza dire a cantilena una cosa già di per sé piuttosto noiosa, senza fare casini, ecco.
dopo la messa, alle cinque e mezzo, ci facevamo di nuovo il segno della croce e, in definitiva, io ero finalmente libera di andarmene a giocare con i bambini amici miei.
ma non prima di aver dato un bacetto a tutte le vecchiette che, messe lì in fila, venivano a salutare me: la loro leader investita ed incoronata. e venivano a complimentarsi con le mie nonne di quanto fossi bella, brava, un futuro avvocato, dicevano, sempre sorridente, tutta sua madre, dicevano, così educata e gentile e sempre ben vestita, dicevano.
poi se ne andavano contente, soddisfatte di aver eseguito perbene e a dovere il loro impegno di pregare per sé e per gli altri, ma divertendosi e sentendosi un pizzico più giovani.
perché forse era questo: guardandomi, sognavano.
attraverso me, loro amavano ricordarsi la loro infanzia, i loro sandali aperti con i calzini, le loro cuffie in testa per coprire il capo, i bavagli bianchi sopra le vesti scure e tutte unite, le preghiere da dire che se no è peccato, le messe con i preti maschi, gli uomini tutti seduti nei banchi a destra, le donne tutte sedute nei banchi a sinistra, le navate della chiesa affrescate di milletrecento, l’odore d’incenso, i canti stonati e le campane prima e dopo la celebrazione della messa.
e suonavo pure quelle, io, aggrappata alla corda lunga fino a terra, saltando con energia e con la corda che mi trascinava via con sé, come un’altissima altalena che ti tira fino in cielo.
quando avevo sei anni ero una leader molto affermata in mezzo alle vecchiette del paese. ed ero felice.

bi

lunedì 1 ottobre 2012

cose che vanno di moda





l’autunno di vivaldi a settembre, perché non è mai settembre vero finché non ti ascolti a cannone l’autunno e dici: ora sì che è autunno. e puoi pure morire simbolicamente in pace con te stessa.
gli aforismi di fabio volo scritti da jim morrison e quelli di jim morrison scritti da fabio volo, perché non è mai una questione di tempo, la moda. la moda va o non va, quindi si muove ed è semmai una questione di spazio.
quei braccialetti colorati tutti uguali a farfalle e cuoricini, che hanno un nome, cioè una marca che qui è meglio che non dica, che poi sono assai spersonalizzanti e appiattiscono (non i polsi, ma chi li porta e ha più di quindic’anni).
gli apericena, che tutti sanno cosa siano, ma nessuno sa chi abbia avuto l’infausta idea di chiamarli con questa bruttura lessicale: mai parola fu più orribile e nefasta.
i capelli lisci per le ricce e ricci per le lisce, che una come me che li ha misti è fuori dal giro e aspetta la prossima moda. nel frattempo se li lega.
l’inverno di vivaldi a dicembre, perché non è mai freddo vero finché non ti ascolti a cannone l’inverno e dici: ora sì che è freddo bello nonostante sia quasi finito dicembre. è che ancora non è arrivato gennaio e manco febbraio e sei ignara di quanto cadrai in depressione sotto venti chili di coperte.
le petizioni per salvare i pinguini dei caraibi del nord, perché fa bene fare del bene e i pinguini potrebbero un giorno estinguersi e soprattutto c’è gente che ci crede se gli dici che nei caraibi del nord ci sono dei pinguini, solo per il fatto che sono da salvare. capito?
le fragole a gennaio e i carciofi a giugno, che tuttavia non sono natura morta. una volta vidi un film, ero molto piccola. ibernarono una tizia che era malata (ma poteva pure essere uno, non mi ricordo). poi la ritirarono fuori che suo marito era vecchio e lei ancora giovane. io ne rimasi sconvolta e mi sconvolge pure tanto la frutta fuori stagione, credo perché mi ricorda il dolore di lui nel film.
il pulcino pio per la pet therapy e per combattere il tormento dei tormentoni, perché l’ho cantato pure io. è come una specie di droga, la stessa che mettono nei panini mcchicken, mi sa. 
i teschi a tutti i costi, pure sulle torte, ma non nei necrologi. li vedete pure voi, no? sono un esercito indiscriminato di teschi, alcuni pure rosa che dici: mo perché un teschio è rosa se le ossa sono bianche? eppure esistono pure rosa e così sia.
i lunedì primo del mese stracolmi di buoni propositi, che svaniscono il mercoledì col cinema scontato. e attenzione: oggi è troppo uno di quelli. e non venitemi a dire che non v’è neanche venuto in mente un buon proposito, perché non vi credo! a me ne sono venuti in mente ben cinque, ma già due me li sono scordati, perché non li ho scritti. accidenti a me.
la primavera di vivaldi a marzo, perché non è mai marzo vero finché non ti ascolti a cannone la primavera e dici: le rondini sono passate di moda, ora sì che è primavera vera.
i topi non più solo mouse, ma anche bianchetti, che mi piacciono un casino. mica si usa più il bianchetto liquido di una volta, che diventava calce dopo tre usi. adesso col topo è tutta un’altra cosa e ti sbagli felice, così puoi cancellare con la bava bianca adesiva del topo. da provare anche per i più scettici sugli errori! funziona, lo giuro.
mia mamma che separa le lenticchie buone da quelle puzze (il giorno dopo aver sgranato i fagioli), perché non comprerà mai una scatola di robe già pronte, lei proprio lei che è una tradizionalista incallita. e allora ruba gli occhiali di mio padre, perché dice che ci vede e non ha bisogno di comprarseli, e se li capa uno per uno, di fronte alla finestra con la tenda spostata. non passerà mai di moda e non sarà nemmeno mai vintage.
prima il mal di gola, passato quello il raffreddore cosmico, perché sono diventati come borse e scarpe: non si abbinano più.
gli stivali d’estate e pure di giorno e i sandali senza calze d’inverno e pure di sera, ovvero a mezzogiorno del quindici luglio con trentasei gradi esci con gli stivali (che dicono siano estivi) e alle dieci di sera del venti gennaio con meno dieci metti un bel tacco dodici per camminare sulla strada ghiacciata e aperto a sandalo. perché sì, è moda.
saturno contro, nel senso che saturno sta sempre contro tutti e tutto e quindi va di moda più lui che tutti i pianeti messi in fila uno dopo l’altro in ordine di distanza dal sole. se andassimo a vivere a saturno, avremmo contro la terra, sicuro.
le oche stupide per antonomasia che sono sempre femmine: ma gli ochi per antonomasia maschi mai? ne è pieno il mondo, oltretutto. e poi basta con queste cose maschiliste e stupide (e ho detto solo stupide).
l’estate di vivaldi a giugno, perché non è mai solstizio vero finché non ti ascolti a cannone l’estate e dici: da adesso la musica cambia proprio: sole, mare, luce e viva vivaldi.
i gormiti al posto dei playmobil, vale a dire la distruzione al posto del costruire: perché ci piace proprio far giocare i nostri figli con i mostri, anziché stuzzicargli l’immaginazione in modo costruttivo. li vogliamo violenti e prevaricatori, ecco.
le verità rivelate dai leggings, che dicono la verità più di tutte le religioni del mondo e punto. quello che mettono in evidenza è tutto vero, che manco serve avere fede.
i reggiseni con nomi di donna, nonostante reggiseno finisca con la o. invece, per par condicio, pure un reggiseno di nome vincenzo sarebbe carino, no? sì, magari nero.
il teorema di pitagora, che fa parte della famiglia dei sempreverdi e non viene mai sovrascritto da un teorema nuovo. come parla di cateti ed ipotenusa lui, nessun altro.
farsi il viso di plastica, riciclando le plastiche fatte in precedenza, perché fa molto bio. in pratica, prima dell’operazione scrivi di tuo pugno una lettera e dici: io sottoscritta dichiaro che tutto il materiale rimosso o eccedente lo do in beneficienza per il riciclo, perché produciamo troppa monnezza e la paghiamo due volte: per nuova e per usata. in fede e firma.
gli stereotipi, purché rigorosamente fabbricati in italia e col marchio made in italy e la bandierina verde, bianca e rossa, perché l’italia è assai esperta in tema di stereotipi. per non parlare poi dei pregiudizi.
cinquanta sfumature di grigio che un vestito non è indovina cos’è? non ve lo dico, ma non è una saponetta.
il bavaglino fatto con un canavaccio legato da una molletta per panni sulla nuca. perché? mica lo farò solo io? tinte forti o quadri, però, che quelli a fiori li sporco sicuro alla seconda forchettata.
sì, sì: le cose che vanno di moda sono rassicuranti.

bi