martedì 17 dicembre 2013

io facevo il tasso



"siamo clessidre con la sabbia in fondo"
edoardo sanguineti


alla recita di natale io facevo il tasso.
un pino nanerottolo per sempre sempreverde e amante delle ombre e delle montagne.
- eccomi qui, io sono il tasso.
così cominciavo, legandomi le mani di nascosto dietro alla schiena.
avevo disegnato una corteccia tutta marrone piena di aghetti verde scuro e bacche rosse qua e là e me l’ero messa al collo, come fosse un lungo bavaglio di cartoncino bianco.
mi trovavo bene a fare il tasso, era proprio l’albero più mio di altri.
più basso dei pini, eppure pino anche lui, uno che parla tanto e che vive in mezzo alle montagne.
dice di sopportare bene il caldo e le sparate grosse del sole e di resistere pure ai soffi del gelo invernale, pur lamentandosene con tutti.
un po’ innamorato della tramontana ma anche dell’umidità e dell’ombra rubata al vicino più alto di lui.
il suo vestito di legno è resistente e flessibile, è uno forte e che vive a lungo.
e poi è uno che può avere varie forme, se potato, più forme come l’acqua.
uno sereno variabile, ecco, garbato e di compagnia.
- sono tasso e sono un albero dal portamento ampio e irregolare e talvolta cespuglioso.
così dicevo, facendo destra e sinistra con le spalle.
era un esercizio per la memoria, quello, per ricordare ogni battuta e non perdermi neanche una parola per strada.
avevo l’occhio di tutti addosso moltiplicato per due, che faceva tantissimo, e in più l’occhio della macchinetta fotografica di mio padre.
quindi lui aveva tre occhi, mica due.
le mie mani sembravano due laghetti, a forza di sudare e sudare, e il mio viso era più rosso delle bacche del tasso.
- i miei nemici sono le processionarie.
così continuavo e in testa mi si disegnavano quelle larve spinose e viscide, che mi facevano ormai una paura bruttissima e mi spingevano a camminare per strada a occhi bassi.
in classe dicevano che mi sarei riempita di bolle, se le avessi toccate o se mi fossero piovute addosso.
ed io ero terrorizzata di incontrarle e il tasso come me, proprio uguali.
ognuno ha un albero nel cuore e io ho il tasso.
un solitario guardiano dei cimiteri, dicono, l’albero che unisce la morte e la vita, con ai piedi profonde radici sottili e dense.
proprio uguali io e il tasso.
due specie di angeli della soglia.
sempreverdi.
con le bacche rosse.
un po’ severi.
sorridenti.

bi



["scarecrow" pejac street artist]



 

mercoledì 4 dicembre 2013

è un anno che t’aspetto

dicembre.

tu e la tua frenesia di luci fiammeggianti, di viali pieni di alberi accesi ed impallinati, di strade riversate di menti pulsanti.
pensieri si tramutano in doni carteggiati e desideranti, voci si trasfigurano in melodie antiche e sempre uguali.
corri, tu, dicembre.
e tutti corriamo attorno al tuo vorticoso epilogo, come se non ci fosse un altrimenti.
ché altrimenti è mancata festa, è mancata fine, sono mancati inizi.
le periferie diventano centri e ognuno si sente centro di se stesso.
una forza centripeta sei, dicembre.
che collassa negli intestini capovolti di ognuno.
tu e la tua luce più breve, eppure così divina.
luce sacra e mai soltanto appena un po’ religiosa.
non umana, ma piena d’umanità riunita e patita.
amo i tuoi cioccolati misti, le nocciole incartate in torroni speziati, le tue pietanze arrossate e affondate in condimenti custoditi dalla memoria, i tuoi piatti decorati di una volta l’anno.
piccoli abeti travestiti da festoni decorano la storia di piccole famiglie, che scovano gli angoli della casa più degni per sorvegliare auguri d’ogni bene e d’ogni amore.
regali da portare allo scoperto riflettono l’indugiante desiderio di chi li sceglie e stuzzicano la fanciulla immaginazione di chi dovrà spogliarli dei loro abiti vivaci, per farli per sempre propri.
il dare s’impasta con l’avere.
la neve decora i paesaggi che raccolgono tradizioni e modernità e li unisce in una mescolanza che fa gioia.
la gioia di vivere il natale come nascita.
tutti.
ogni volta, come fosse la prima.
t’aspettavo, dicembre.
per concludere, per chiamarti per nome, per rivivere un sorso di ricchezza, per coprirmi, per ricoprirti, per riscoprirti, per festeggiare mio padre e riunirmi coi miei il ventiquattro a cena.
non mi stancherai mai.
con te pare che la musica classica sia più celestiale e stare intorno a un tavolo sia fondersi in abbracci perpetui e dirsi auguri sia come sussurrarsi segreti mai svelati che diverranno atti compiuti.
penetri, tu, dicembre.
nelle interiora, strappandole dalle viscere e palesandole al mond’intero.
e l’interiore diventa esteriore.
so già che ogni volta sarà come l’ennesima festa con te, con l’aggiunta di un altro anno in più.
e come ogni volta ti ribadirò che i propositi non fanno per me, ché io non so mai cosa proporre.
aspetto un cenno da te e tutto accadrà nell’ordine naturale delle cose.
sei un contenitore in cui riversare i miei liquidi e dare loro finalmente una definizione.
(i miei, sì, ché mi sento sempre eternamente indefinita).
trame di passioni si tessono a dicembre con fili di lana pura e tinta di giallo.
è freddo, dicembre.
eppure con te sento caldo dentro.

bi

[ph. alicia savage, da la révolution surréaliste]

giovedì 28 novembre 2013

la festa prima della festa


 
di un luogo, quello sì, puoi dire che t’appartiene.
con la stessa forza centrifuga con cui tu appartieni a lui.

 

clara si sposò in agosto. eravamo già lì in vacanza e fu facile radunarci tutti insieme. le giornate erano lunghe e assolate e ci scaldavano quanto bastasse per sentirci ancora il calore bollente addosso durante le serate all’aria aperta. la temperatura notturna scendeva parecchio, anche di oltre dieci gradi, ed il vento s’alzava ogni sera verso le sette, per calmarsi soltanto a notte tarda.
i preparativi ci tenevano lì, tutte cucite perbene con un unico filo sottile, che s’attorcigliava invisibile intorno ai nostri corpi. ognuna aveva infatti il suo bel compito da portare a termine per contribuire alla realizzazione di un grande, grandissimo, enorme evento: la prima cugina della nostra numerosa famiglia si sarebbe di lì a poco sposata con il suo fidanzato. e caspita quanto fosse un evento importante, quello!
ai dolci per accogliere gli ospiti prima e dopo la cerimonia ci pensava mia zia. tutti fatti con le sue dita irregolari e copiose, incavati o bucati o perfettamente tondi e ripieni di marmellata viola scuro. i dolci sono sempre stati il suo piccolo miracolo. ammassava i suoi ingredienti nascosti dentro la dispensa, all’oscuro degli altri, per mantenerne un segreto sempiterno. il suo, solo suo. e mio, pure, che ero al suo fianco e li mangiavo ancora da cuocere, oppure bollenti appena usciti dal forno, e le dicevo prontamente che, sì, anche quel giorno il suo miracolo era riuscita a compierlo alla perfezione.
era fissa davanti al suo tavolo magico, il corpo ondeggiante in una danza regolare e suonata dalle sue vesti fiorate e leggere, le braccia tese, poi un po’ ricurve, di nuovo tese e ancora ripiegate… così, come al ritmo di una canzone confusamente latina. le mani sembravano ingrossarsi e impastavano senza pausa uova con altre uova e zuccheri e farine colorate di chiaro e bustine di misteri mai svelati. e le dita si contorcevano velate nel mezzo di quell’impasto, che sapeva già solo da lontano di paradiso.
poi ecco che creava i suoi piccoli figlietti: tozzetti di biscotti un po’ sgualciti e abbronzati e ciambelline al vino bell’e tonde, che ruotavano in armonia attorno al loro buco. e poi crostatine perfettamente ovali, coperte da un quadrettato simmetrico che disegnava piccoli rombi buonissimi e fragranti e affondate in una marmellata talmente intima da non poterla nemmeno nominare. non di prugne, né ciliegie o fichi o fragole… di tutto un po’, così era fatta, tutta incomprensibile ed impenetrabile, come lei: zia terry.
ai fiori ci pensava mia madre, piena di pollici verdi e foglie interiori. li aveva scelti quasi tutti chiari, come chiara era la pelle inviolata di clara.
c’erano gigli slanciati come l’altezza sua, con il gambo eretto e sbrigativo e al culmine il frutto del loro pensiero leggero: una campana bianca, che risuonava d’amore e purezza. gigli nel salone e gigli lungo la scalinata a ferro di cavallo e gigli in cima al pianerottolo, prima d’entrare nel secondo salone del piano superiore.
c’erano inoltre altri fiori di campanelle rosate, più chiari al centro e meno incerti nei bordi stondati. campanelle, ecco, meno campane dei gigli, più discrete e minuscole quanto bastasse per essere notate da vicino e non da lontano, messe in secondo piano, come fossero delle sorelle minori. poi anche altri fiori minuti, di un giallo timido e poco incline al dialogo.
nel frattempo clara si andava emozionando, esaltando la sua fulgida bellezza. 
era un tripudio. la casa odorava di prati muschiati e addomesticati e s’impregnava di continuo vociare delle centinaia di biscotti sfornati ogni mezz’ora. io mi tuffavo in quell’esultanza, correndo tra le piante e poi tra i biscotti e annusando i fiori e rubando crostatine senza mai essere scoperta.
era una festa prima della festa. una cerimonia familiare prima della cerimonia di tutti, un matrimonio di profumi e sapori e bellezza prima del matrimonio d’amore.
tutte ci appartenevamo, allora, e il filo che ci legava ci apparteneva anch’esso e si torceva sempre più attorno a noi, legandoci per la vita e stringendoci al nostro luogo. come le radici vi ci allacciano gli alberi.

bi


[isadora duncan's dancers, new york 1920]

giovedì 14 novembre 2013

accumulo


autunno mansueto, io mi posseggo
e piego alle tue acque a bermi il cielo,
fuga soave d'alberi e d'abissi.
aspra pena del nascere
mi trova a te congiunto;
e in te mi schianto e risano:
povera cosa caduta
che la terra raccoglie.

salvatore quasimodo, autunno








accumulo cibo sano e molti litri d’acqua, affinché il mio corpo possa essere fiero della mia mente.
tisane da stringere calde tra le mani aride nelle mie solitarie sere invernali, limone spremuto tra i monti di venere e infilato nel tè delle mattine infreddolite.  
accumulo sogni indicibili, cammini eterni in cui scorrono infiniti, mai sfiniti.
notti senza nome, notti assenti di rumori, notti sussurrate, notti consumate fino all’ultimo minuto sotto il ponte della trapunta, che al tempo mi donò mia nonna.
a quadri, verde e viola.
come se già sapesse che l’avrei abbracciata per oltre vent’anni.
accumulo desideri e pensieri e preghiere e sinestesie e luce nelle mani e altre cose così.
accumulo argentei temporali fragorosi e tramonti rosa antichi in cima alle vette appena innevate.
cervi che spiano tra le betulle pendule e si scrostano le corna sui muri delle cortecce delle querce.
accumulo cose che non agiscono, parole che non mi trovano, pensieri che non parlano.
ritorni stanchi e serali, su tracce di musiche lente come ere.
accumulo ricordi mai scordati e sempre accordati, memorie che scivolano leggere e s’infilano negli sguardi annodati.
mancanze di cose minuscole, di scale salite, di giochi gridati d’estate.
accumulo consapevolezze.
e cioè che la mia pelle mi somiglia, che la mia gola mi parla.
che i giudici fanno male più a chi giudica che a colui che viene giudicato.
che l’imperfetto è il tempo per me, mentre il presente mi si accoccola accanto e mi tiene per mano.
che cerco nel passato la donna che sono in fondo.
accumulo baci liquidi come laghi in cui si riflettono le montagne, sentendosi lago anche loro e dimenticando di essere cime.
accumulo speranze di una vita allungata e agita in attivo e in passivo.
in passivo e in attivo.
come un’altalena in cui mi rincorro e trovo sempre i piedi miei.
accumulo sciarpe per far fiorire il collo mio, per essere fiore con i petali che sporgono all’infuori, per fare lo stelo ritto verso il cielo e leggermente ripiegato in avanti, com’a cercarsi le radici.
accumulo rughe che scavano torrenti d’acqua pura sul mio viso, corpi nudi per fare come fa la libertà.
accumulo denti fragili come piccola ossa di bambina.
e poi cioccolate fondenti, paste con i pomodorini appena scottati, la soia in dispensa, l’olio spremuto due settimane fa, le ciabatte col fiocco al centro, il pigiama col prato tatuato.
accumulo amore per stringermelo addosso e farlo volare via, appena si sia scaldato.
luoghi larghi e ariosi, appartenenze mai troppo strette, lacci un poco slacciati.
persone da abbracciare e da chiamare per nome.
accumulo, perché diversamente non saprei fare.

bi
 
 
[immagine di kylli sparre]

lunedì 4 novembre 2013

il due novembre


"qui radichi e cresca! non vuole, per crescere,
ch'aria, che sole, che tempo, l'ulivo!"
giovanni pascoli, canti di castelvecchio


il due novembre è dei morti. che s’illuminano ancora, che si cospargono di fiori allargati e dal profumo acre, che tornano coi vestiti di una volta, colorati di scuro e ben sistemati sui loro antichi corpi esili.
tornano nei ricordi di ciascuno, nei loro passi pieni di lumini da far brillare, nelle loro parole piene di eterni riposi, nei loro sogni, nei loro bisogni.
pare sempre nuvoloso il due novembre, come se il sole non sia necessario, ché i cimiteri da sé rischiarano i paesi e i loro contorni annebbiati. il vento parla deciso, passa la sua mano affettuosa sui visi schiariti da un ottobre trapassato, accompagna i pellegrinaggi tra le tombe piene di presenza e le cappelle spalancate.
entrate, non esitate. siete i benvenuti nella valle dei ricordi e delle memorie familiari. così pare che dicano i cancelli dei cimiteri aperti fino a tarda sera, che luccicano come i boschi di fine giugno abitati da lucciole giocherellone. sono i lumi a giocare a novembre, i bagliori minuscoli dei lumini arrossati che resisteranno, se saranno fortunati, una sessantina di giorni e di notti.
io ci tengo al due novembre. all’uno no, ma al due sì. la morte è una trasformazione che va festeggiata, come una nascita. è una rinascita e io la vedo così.
mi faccio il mio percorso dentro e saluto i miei nonni. sono ancora così, sempre uguali a prima, con quei visi frontali e tatuati di lavoro e fatica.
paolo non l’ho mai stretto corpo a corpo e l’ho sempre immaginato alto quasi un metro e settantacinque, magro e diritto, sorridente e furbo. chi parla di lui lo fa ancora con grande rispetto e sorride. paolo è un sorriso mai incontrato e sempre ricambiato.
anna l’ho amata fin da bambina sul mio divano di velluto color castagna. ampia e vestita di lane arruffate, con lunghi capelli argentei acciuffati in una cipolla intrecciata alla nuca. una diana cacciatrice che profuma di casa e robe cucinate e pane cotto al forno. seduta con fierezza all’angolo del terrazzo solo suo, accanto alla sua fedele rosa spinosa, su una sedia impagliata e leggermente deformata, sulla quale m’accoglieva in ogni istante.
enrico invece è mio zio, uno dei fratelli maggiori di mia madre. è morto nell’ottanta di tumore all’esofago ed è bello come pochi altri uomini mori e di montagna. alto, sicuro di sé e taciturno, vigile come un falco e regale come un principe delle foreste nordiche. lo ritrovo sempre avvolto nel suo sguardo languido e malinconico, uno degli ultimi condivisi coi vivi, credo.
zio bino è lì che sorride e accoglie tutti. come se stesse ancora di fronte al suo camino di marmo bianco, infilato nella giacca grigia da maestro severo e capricornino. come se stesse in cima allo scalino del camino, appunto, ciondolante sulle punte delle sue scarpe stringate in pelle nera. pronto a dirmi: “be’ allora, barbara, che stai studiando?” e a farmi sedere al suo fianco sinistro, per vedere un film di totò o un giallo di hitchcock.
cammino, scansando piante ancora incartate e piene di petali violacei o accesi di giallo. il silenzio domina nella valle e mi sento a mio agio. ci andavo anche di notte, per gioco e per sfida, nelle mie estati abruzzesi di tanti anni fa. e lì, allora, i vicoli apparivano delle possibilità spaventose e opprimenti. ora non più.
arrivo con la macchina la sera ed è una baldoria di luci, che si estendono lungo tutta la valle di santo martino e disegnano presenze remote. immagino il fare disinvolto delle donne che hanno trascorso i giorni appena accaduti a pulire le lapidi, a far sparire fiori secchi e piante sfinite, a pregare mentre spostano la scala alta con le ruote grandi.
il due novembre è di chi resta. di chi fa sparire le pupille al di sotto delle palpebre umide e prova a rappresentarsi nella testa il percorso che dalla vita porta ad un al di là sconosciuto, abitato da una luce supposta.
mi piace il due novembre, mi piace pensare che non ci si scordi di nessuno e che anche i morti più vecchi tornino nelle parole di un presente che non li vede protagonisti.
il due novembre è imbottito di boccioli appena nati, di cimiteri ripuliti e coi varchi allargati, di persone che s’incontrano e si raccontano le cose accadute nell’ultima manciata di mesi, di lacrime sommesse, preghiere dilatate e di luci.
luci accese in ogni dove. luci naturali di candele. luci narrate e non più solo intraviste. luci coraggiose, che cantano esistenza. luci che incendiano memoria orale e scritta. luci dei lumini.
il due novembre è della luce e di chi ha ancora voglia di accenderla, com’a dire che la morte, in fondo, è una candela sempre accesa.  

bi


 

[foto di ingrid endel]
 

martedì 29 ottobre 2013

#fotosintesi di un’attesa

         
rallento e mi fermo. faccio che passi, dandole la precedenza.
indugia. fa un po’ avanti e indietro, muovendo pochi millimetri, andando a mostrare un profilo stondato e denso di esitazione. un’insicurezza che pare cucitale addosso fin da bambina.
dev’essere una madre dolce e apprensiva, se madre è. o una studentessa che si colora di rosso vermiglio dal collo fin sopra i capelli, se studia. o un’amica che ti chiama se trova le tapparelle chiuse, per sapere se tutto sia in ordine nella tua vita.
parte. mi lancia uno sguardo incerto e sparisce lungo la strada. un frammento di esistenza lo abbiamo condiviso, grazie a pochi istanti di attesa. poi si dissolve, liquida, dalla mia vita.

sul lato destro, la gamba sinistra tirata verso l’alto. così cominciano le mie notti. le mani vicine e disgiunte, che si scambiano elettroni notturni e così intimamente sconosciuti. la guancia destra preme al centro del cuscino sgonfio, morbido più delle cose normalmente morbide.
attendo che il mio corpo faccia sparire la materia di cui dice d’essere fatto, per trasformarmi in una falena mimetica e silente. il naso, solo quello, resta con coraggio fuori dalle coperte.
pochi intensi istanti liminari mi separano da una soglia di versi bambini, che vociano con gioia e spensieratezza. eppure sono istanti senza tempo.
condivido quella gioia.
smuovo la gamba, il mio corpo è ancora qui.
il silenzio del buio ha una voce: parla sottovoce e pronuncia il mio nome.
il mio cuore è vittima di un’erezione fulminea e mi balza in gola e mi secca le labbra come una folata di tramontana.
l’attesa del sonno è abitata. eppure la mia paura allontana la notte e sveglia i miei sensi. i cinque.

il sole è già alto. percorre un’ellissi schiacciata e più breve che in estate, si sa, e il mezzodì si affaccia spostato più a sud. il sole è un regalo di fine ottobre. tira un vento delicato e penetrante, che raggela la vampata che ha appena attraversato la mia pelle.
un rumore tenace m’insegue alle spalle -eppure sono sola- sospiro. sospiro due volte. sospiro tre volte. un po’ per la fatica delle salite sassose e a tratti ripide. un po’ per quel suono, calpestato ed insistente.  
sembra premuto addosso a qualcosa, o di ritorno da un altro posto. è un’eco delicatamente echeggiante, che mi scricchiola alle spalle.
mi fermo. esito un momento. idee fatte di spicci di secondi mi ribollono dentro molesti.
mi volto. sono gli alberi a rompere quel silenzio apparente e irreale. il vento li oltrepassa e fa saltellare le foglie imbrunite sui rami. “ci ritroveremo su un letto di foglie”, così mi dicono, in quell’attesa prima ch’io mi giri.

la luce non è sempre bella. quella sintetica e gelida dei neon tondi e cangianti, ad esempio, è una finzione che ricalca poco la luminosità. è solo una fonte di chiarore del tutto innaturale.
ho un camice verde scolorito e un paio di slip di cotone bianco. così mi avevano detto: “li può tenere solo se sono bianchi e di cotone”. sento freddo e un insieme di voci sconosciute mi invade lo spazio intorno.
la luce della sala operatoria, quella mi fa schifo. stai sotto di due, tre piani e ti vendono per giorno quello che per te è solo una notte.
s’avvicina una donna con gentilezza e chiede il mio nome. ho una canula infilzata nel braccio destro, che mi ricorda ad ogni mossa che la cautela nei movimenti è necessaria in questi momenti.
le dico “barbara” e che ho trentadue anni. “ora ti facciamo dormire per un po’, d’accordo? tu resta pure tranquilla. respira regolarmente. pensa ad un momento bello”.
al mare, a quello mi viene da pensare. alla sabbia bianca talmente fina da restarmi ancorata alle caviglie. al tramonto orientale che casca sul mare e a quell’attimo irripetibile che mi resterà per sempre impresso, anche senza che lo fotografi…
mi risveglio dopo tre ore. tre ore in incognito di una presenza così tanto assente.

l’attesa è un’addizione. non di addendi, che accadrebbero di per sé senza aggiungersi a se stessi. è una fotosintesi tra un momento e l’altro.

bi
 
 


[foto di alicia savage, da "la révolution surréaliste"]
 

giovedì 24 ottobre 2013

nome comune di cosa / maschile / singolare / minuscolo







è al sapore di agrumi.
in realtà di due limoni con foglia e dalla buccia erta, strizzati a mano nello spremi-agrumi di plastica bianco e giallo scuro.
dalla finestra entrano beffarde urla dei bambini dell’asilo vicino.
si staranno spingendo su quelle slanciate altalene di ferro blu, un po’ attempate e ossidate.
resto in silenzio.
senza tivù, né musica, solo i fragori esterni che s’intrufolano quasi a dispetto.
è assai nuvoloso, di un grigio antracite chiaro e sfumato di canna di fucile.
poco vento.
eppure i brividi mi attraversano la superficie della pelle indisponente.
il riso è di colore bianco latte.
leggermente attenuato dai bocconcini di pollo dorati in padella.
la tovaglia rossa è ripiegata a metà, quella giusta per una me solitaria.
vado lenta.
e svuoto la prima ciotola.
passo alla rucola, piena di limone anche lei.
senza limone pare che io non sappia più mangiare.
come appena sveglia.
percorro come un fantasma la cucina, apro la finestra verso il buio che c’è prima delle sette e apro il rubinetto dell’acqua calda.
faccio che scorra un bel po’.
ci riempio il bicchiere e ci spremo mezzo limone dentro.
bevo incerta, più perché faccia bene che per il gusto dell’aspro di prima mattina.
nello speck ho spruzzato l’aceto balsamico.
mi piace e altera il giusto l’impressione della carne che spinge sul palato.
solo due fette.
le grida continuano e mi avvicino alla finestra per cercare di vederli giocare.
si staranno rincorrendo, penso, perché non riesco a vederli.
una volta si vedeva tutto da lì.
lo sterrato, il prato, il giardino dell’asilo e l’asilo.
ci arrampicavamo su per la rete e ci intrufolavamo a giocare nei pomeriggi in cui veniva svuotato.
e c’eravamo solo noi, in quattro o cinque.
un giorno alessandro sbatté il lato destro del cranio su uno spuntone dello scivolo.
forte.
un fiotto a due corsie di sangue scarlatto scuro sgorgò come un fiume selvaggio davanti a noi.
agnese cominciò a piangere.
disperata.
io mi affrettai a strillare di correre tutti a casa di alessandro, per farci aiutare da sua madre a fermare quella piena dalla testa.
ci restò impresso a lungo e lì non ci tornammo più.
la vivemmo come un rimprovero della vita quella cosa.
un non si deve fare e non si fa e allora non lo facemmo ancora.
libero la tavola, lasciando la tovaglia stesa nella sua giusta metà.
non ci sono molliche, perché il pane non lo mangio se non in bruschetta.
faccio per chiudere la finestra, prima di uscire di casa.
la vedo al suo solito posto.
è la rosa, quella di quasi due metri.
solo due giorni fa aveva ancora la testa ricoperta di petali rosa sbiaditi dal velluto della loro consistenza.
oggi ne ha solo due o tre, non di più.
è l’inizio della fine di ottobre anche per lei, che è fiorita con la primavera dell’inverno.
mi manca già quella sua fierezza femmina che mi guarda dall’alto verso il basso.
o dal basso, quando la cerco dall’affaccio di casa mia.
è pranzo.
il nome comune di cosa.
maschile.
singolare.
(minuscolo).

bi



[ph. bi: aceto balsamico, tracce]

martedì 22 ottobre 2013

geometria d'una bellezza

è altissima e affusolata
l’ho vista sotto una magnolia
condensata in un’aria sognante
quasi a nascondersi da occhi inopportuni
occorre notarla
nonostante sia così allungata
– ah, allora sì ch’ella si manifesta impavida
ieri è stata la mia prima volta
solo ieri mi sono accorta di lei
e sono arrossita
m’osservava dall’alto
la testa declinata verso l’infinito del sottosuolo
con una geometria così rosea
per niente impallidita
un’overture di aromi vellutati
e spine puntute d’orgoglio e giudizio
“sono in ogni parte della mia materia”
questo sembrava dirmi in silenzio
dall’alto dei suoi quasi due metri
due metri di sottigliezza
di bellezza garbata e sottovoce
piena di avverbi di campo
e mai di tempo o di luogo
a sé stante
femmina e rosa
da donna a donna
un filo d’argento ci univa non visto
e in me un soffio d’emozione
è sbocciato dentro
poi un balzo di malinconia
e la percezione della rovina
la rovina insita nel suo sguardo
una certezza insapore e silente
d’essere – ella – per il mondo
solo e soltanto una rosa
una rosa
nulla più d’un fiore
altissimo e affusolato
sotto una magnolia
di un anonimo giardino di città
– e nient’altro

bi
 
 
 
[floridóptero, di esteban leyton]

mercoledì 16 ottobre 2013

rose rosse

sedevano composte in un tavolo da sei. la tavola apparecchiata era movimentata e le cose vi giravano sopra in ordine sparso, seppure fosse pulita e senza macchie, senza acqua caduta accidentalmente e schizzi di sugo attorno ai piatti bianchi. erano quattro giovani fanciulle e una donna adulta di spalle.
due parlavano tra di loro, messe una di fronte all’altra. se l’erano scelto prima di sedersi quel posto – ne sono certa – proprio per ritrovarsi con i visi allo specchio e le parole incrociate al loro centro. fammi assaggiare la tua pasta, diceva una. sì, sì, ché è buona anche senza il sugo di mamma, le rispondeva l’altra.
sorelle, quattro sorelle, seppur differenti nei colori e nelle linee.
una era buttata sull’angolo vicino alla finestra, silenziosa e dedita ad agghindarsi le ciocche castane chiare. appena dodicenne – così pareva – con lunghi capelli annodati su loro stessi in caduta nel lato sinistro del viso, con le punte schiarite dall’estate finita.
sembrava slegata dal resto del tavolo, come se cenasse da sola e senza ingoiare cibo. si era accostata una fine rosa rossa sulla guancia destra, facendola scivolare avanti e indietro, per trovarne la più giusta inclinazione per una bella inquadratura. voleva scattarsi una foto, che sembrasse presa d’improvviso e senza studio, naturale quanto basti per piacersi sotto la stessa luce in cui presumibilmente la vedesse il resto mondo.
di fronte a lei una bambina poco più piccola mangiava il pollo in silenzio. anche lei aveva una rosa rossa, sistemata in perfetto orizzontale tra il bicchiere ed il piatto pieno. gli occhi li affondava nel piatto, poi li faceva risalire in aria e li spostava verso destra, alla ricerca di sua madre.
una donna mora, esile e composta era seduta infatti a capotavola a raccoglierle tutte davanti a sé. era impegnata con il suo telefono cellulare, mentre attorcigliava scomposta una folla di spaghetti sottili, che le sfuggivano dal piatto. poi alzava lo sguardo, passava in rassegna le sue quattro creature sedute a tavola, controllava che i piatti si stessero svuotando, per poi tornare nei suoi pensieri affondati nella luce artificiale del telefono. aveva donato a tutte una rosa rossa.
intanto le parole continuavano ad incrociarsi tra le due sorelle frontali, accomodate rispettivamente alla destra e alla sinistra della madre. brevi visi accesi da sorrisi e pensieri bambini, contornati da capelli sciolti e ben organizzati lungo le loro schiene.
quella di sinistra sorrideva di continuo e restava impegnata nel suo piatto ricco di pietanze verdi attorno ad una fettina di carne scura. agitava la sua rosa rossa col braccio sinistro, accompagnando discorsi spensierati e gesticolando allegria e garbo.
la sorella di fronte la ascoltava divertita, interrompendo a volte con frasi corte quel monologo così ben articolato. aveva un bel viso tondo, accerchiato da lunghi capelli cenere, che le coprivano il profilo gentile. avevo preso di getto la sua rosa rossa e aveva cominciato a sventolarla sul muso di sua sorella, ridendo a voce piuttosto alta e muovendosi sbattendo sul tavolo e spostando la tovaglia. i suoi erano movimenti selvaggi e poco ponderati, quasi poco consapevoli di siffatta potenza, pronti a scoprire un viso piatto con due mandorle perfette al posto degli occhi.
tutte e cinque separate e a sé stanti, eppure così unite da amorevoli fili invisibili, intessuti da quella madre indaffarata e così presente con più d’uno dei suoi sensi, riunite in quel loro qui e ora di una domenica sera piena di rose rosse.
cinque donnine erano cucite insieme da un forte sentimento di appartenenza familiare alle loro radici comuni, mentre già si stavano inconsapevolmente costruendo, ciascuna per sé, un segmento di autonomia e libertà. da vincoli, provenienze, storie di vita, da quei fili d’aria. nella pienezza della libertà di essere presenti senza assenze.
come le rose rosse.

bi




[ph. christian schloe digital art]

venerdì 11 ottobre 2013

in fondo è solo autunno

 
 
accade al mattino

la luce del buio non è tutta uguale.
al mattino, ad esempio, è grigio piombo, rivestita di sottili riflessi argentei.
è lì, in quello spicchio d'argento, che il mattino viene alla luce con tutti i suoi adagio.
scendo al di sotto dell'unica coperta che mi separa dall'aria rinfrescata e non riesco mai a sentirmi del tutto verticale.
indugio e, quand'anche sia eretta, in me domina un sentimento trasversale.
metto a bollire l'acqua per il tè e mi perdo in tre mattonelle della parete: sono là a disegnarmi un cuore.
ecco che mi siedo e ci parlo (da cuore a cuore).

l'autunno mi si deposita addosso.
poi entra dentro.
ho foglie sospese nei capelli, di quel nocciola dorato che annuncia la caducità dello starci.
oggi sei la foglia che regna sulla fronda di una quercia secolare, domani il foglio appassito di vita vissuta, inaridito e pronto a volare come polvere.
amo perdermi in quegl'occhi appena un po' lucidati dalla fissità delle palpebre, da quell'immobilismo temporaneo che li tinge di emozione e li fa riflettere a se stessi.
come una luce nera.
il vento mi strega e ruba frequenze a tutto il mondo.
mi bolle in fondo e s'intrufola nelle cavità nascoste di una me candita e caramellata.
l'autunno germoglia ad ottobre.
mi metto il caldo in tasca e lo tocco con impazienza mentre sono fuori.
lo giro, lo accarezzo, lo rigiro, lo maneggo, lo stuzzico.
e intanto sento venir meno l'aria che s'intrufola con dispetto in cima alla gola.
ah, che peccato grave la dimenticanza.
come si può scordare il giallo della terra estiva, semplicemente perché l'autunno s'è impossessato di te?
t'affitto i miei campi di grano, se li vuoi, sì che calpestandoli e vivendoli tu ne tenga memoria per sempre.
piantaci su degli alberi pieni di poesia e nessun autunno verrà mai ad ingoiarne le foglie.
è autunno, usciamo.
vorrei essere cucita sulla brezza mattutina, per vivere vaporosa e senza geografie.
radici nell'aria, queste vorrei, incrostate e trasparenti.

bolle.
l'acqua per il tè mugugna.
rieccomi.
affogo il mio grigio tè mattutino in quel cratere fondo ed incandescente.
la dimenticanza, mai mi avrà la dimenticanza.
nulla si cancellerà da queste membra pulsanti, finché non ne sarò del tutto oltrepassata.
stringo metà del limone nella teiera e mi annuso le mani bagnate, che si sono imbevute del suo gusto giallastro.
l'autunno è la gestazione della neve.
aprire la porta e trovare tutto bianco e rigido, questo pure vorrei.
la testa coperta, la sciarpa addosso e i calzini di lana.
aspetto pure questo, aspetto pure questo.
mangio i biscotti appena inzuppati, prim'ancora che si sbriciolino nel tè.
centinaia di parole confuse mi vociano in testa.
sto bene, grazie.
in fondo è solo autunno.

bi
 
 


[immagine di mariana palova "moon tales"]
 

mercoledì 9 ottobre 2013

le forme dell'amore

amore genetico
amore sanguineo
amore inteso
amore distato
amore inerpicato
amore trasversale
amore raggomitolato
amore desertico
amore immaginato
amore transumato
amore ramificato
amore rischiarato
amore sordo
amore a sorsi
amore nuvoloso
amore rastrellato
amore mietuto
amore di cristallo
amore sommato
amore di confine
amore atterrato
amore disossato
amore in rovine
amore albergato
amore senz'apostrofo
amore al crepuscolo
amore ammucchiato
amore randagio
amore immobile
amore ibrido
amore albeggiato
amore disciolto
amore costellato
amore vertiginoso
amore ingoiato
amore tracimato
amore rabbrividito
amore inverso
amore tinto
amore al quadrato
amore che scorre
amore spogliato
amore fertile
amore certo
amore asimmetrico
amore alluso
amore intimato
amore senza geografie
amore mediano
amore scovato
amore penetrante
amore speziato
amore spaziato
amore versato
amore apparecchiato
amore condito
amore ricordato
amore fritto
amore dipinto
amore incantato
amore situato
amore sincronico
amore aspirato
amore espirato
amore affrettato
amore scosso
amore vagheggiato
amore ruvido
amore alberato
amore consegnato
amore circolare
amore inginocchiato
amore fradicio
amore obliato
amore stellato
amore affilato
amore sdrucciolevole
amore allo specchio
amore in silenzio
amore agito

bi




[ph. ewa adriana szumowska]



martedì 8 ottobre 2013

due divani da due

di lì a poco sarebbe piovuto. lo annunciavano le colline imbrunite, di quel verde già bagnato prim’ancora di incarnarsi con la pioggia. settembre, il sette, dopo un pranzo pieno di famiglia e di piatti tradizionalmente carichi e colorati, con otto sedie disposte attorno al tavolo rotondo al centro del salone del piano di sotto. disuguali, sei in un modo e due zingare ed impagliate provenienti dalla cucina. ecco: quelle le mie preferite da sempre.
tuoni lontani, il vento che ne alza il volume ed il pranzo dissolve i presenti, portandoseli nelle loro cose altrove. noi lì, nella cucina adiacente, illuminata dalle due finestre che ci buttano nel verde: ci affacciamo e ci ricopre una costa di aceri e conifere e querce, una misticanza di verdi zuccherati che si perdono tra loro.
il vento si rinforza, la finestra sbatte una delle ante su di sé ed eccola, precisa come il rintocco della campana delle tre, la pioggia da subito forte e decisa. piove ogni volta, ad ogni pranzo di settembre che facciamo tra di noi. entriamo che c’è il sole e il caldo è appena un po’ sfiorito e passato, ma poi dopo le due accade puntuale il vociare della pioggia. acuto e un po’ grave, che smuove le foglie degli alberi da farli echeggiare anche lontani, ininterrotto e potente, che scorre sui sampietrini generando fiumi fragorosi e lucidi, forte e armonioso, come una melodia che ci avvolge mentre prendiamo il caffè.
noi quattro. quattro donne, quattro generazioni, quattro mondi.
- andiamo su, mettiamoci sul divano. 
è chiara che parla. una i maiuscola, alta da sempre, da quando era bambina e più alta di tutti e già maiuscola dall’infanzia. chiara come i suoi capelli appena poggiati sulle spalle, come la pelle color perla, nitida e fresca. si muove a passi svelti e brevi e noi la seguiamo al piano di sopra, messe in fila in ordine sparso. l’ultima sono io, la più piccola quasi ogni volta.
facciamo il nostro ingresso nel salone, riempito da una luce ingiallita e dalla musicalità del tardo temporale estivo. l’acqua corre e sembra una quantità tale da poter riempire la valle e far nascere un nuovo lago a mille metri, di cui dovremmo solo inventare il nome. (il lago dei pensieri, così lo chiamerei).
ci sediamo. due divani da due color avorio e leggermente floreali ci raccolgono al centro del salone e ascoltano le nostre chiacchiere femmine.
siamo sempre state tanto donne nella mia famiglia. tutte femmine che finiscono con la a e sanno fare da sé e anche di più, accompagnate e non, solitarie eppure mai sole. donne che si bastano, queste siamo. un po’ tutte così, anche chi ancora non lo sa (ed è meglio per lei, dico).
del pranzo e dei presenti, di quello parliamo. della pasta che non è avanzata e dello zafferano che ci si sposava benissimo. del matrimonio delle cinque e della sfortuna dell’arrivo della pioggia, ché chissà quella poveretta della sposa come potrà fare con quella sua veste candida che dovrà strusciare sulla strada infangata. del passato, di quello parlo io, ma non per malinconia, quanto per la nostalgia di attimi che conservo nelle interiora, proprio così: intatti e mai masticati del tutto. per conservarne ricordi carnali e non sfatti e diluiti.
- quando andavamo alla terra di zio, ti ricordi? e coglievamo cestini di ciliegie, arrampicate sulla scala di legno. (e io fuggivo alla sola vista delle api e delle cassette con cui zio le coltivava con passione). e zio faceva la discesa a macchina spenta, in folle, con la otto e cinquanta color crema. alle quattro mi facevi il panino come volevo io e mi chiamavi signorina tumistufi
ero come la sua quarta figlia, piccola, estiva e un po’ bizzarra. e lei mi amava, eccome se mi amava, come si amano le estensioni delle proprie sorelle. mia madre è la sorella minore, io la nipote frizzante e stravagante, piccola pure di statura, esile e scattante.
- ti cambiavi vestiti tre volte al giorno, mi facevi impazzire! neanche dovessi andare chissà dove.
mia madre ride ogni volta a sentirmi raccontata in questo modo, arrivando a far mostra perfino delle gengive e schiudendo i suoi occhi cioccolato fondente.
la gioia è un’asimmetria di attimi e sguardi familiari, come quelli che stiamo vivendo in queste poche ore pomeridiane, contornati dalla pioggia, ora illuminata dal sole, eppure così caparbia e ancora lì a scrosciare sicura di sé.
donna, pure la pioggia, e appoggiata anche lei, insieme a noi, nel salone di sempre, in cui correvo e mi nascondevo da bambina.
noi quattro nei nostri due divani da due.

bi
 
 


[ph. bi]
 

mercoledì 2 ottobre 2013

antologia di un'emozione


raccolgo parole e le avvicino tra loro, affinché si scaldino e rimescolino il confine confuso che le disunisce e le fa danzare in questo spazio di relazioni.
ho raccolto qualche poesia, dunque, di quelle che ho scritto qua e là e di cui vorrei lasciare traccia in queste radici preziose, affinché crescano rami pronti a svettare coraggiosi verso i cieli.
ad ogni poesia ho avvicinato una immagine, quella che avevo negli occhi o nel cuore.
a volte mia, a volte no, eppure amorevolmente scelta.
ecco perché antologia: un cestino di vimini con una tovaglia a quadri ripiegata e molti fiori sparsi. tutti differenti.

buon viaggio, bi 

(sorrido)




ho le tasche vuote,
gli occhi pieni di sonno.
ma una lingua della nuvola
su cui poggio i piedi e viaggio
posso donartela.
(ecco, questo è il mio palindromo).

bi | otto aprile

 [ph. julie de waroquier]


***

 


un vociare mattiniero
di mani che s'inumidiscono
e confessioni che s'incrociano
il tempo si confonde
e si declina al remoto

bi | due luglio
 
[ph. bi: roma, il bucataio]
 
 
***

 
 
 

passo per il nocciola e il rosso,
per l'aroma del sandalo,
la ribellione dei no
e l'amore dei sì.
per le note di vivaldi
e i capricci di paganini,
per le lacrime di catherine earnshow
e il vento furioso della brughiera,
per la pioggia che piange a luglio
e il letargo invernale di chi,
come me, ha la pelle trasparente.

bi | dieci luglio

[ph. bi: lisboa, more than a shopping bag]


***




una vestiva l'ocra del fieno
e prendeva di petto il mondo.
ammiccava talvolta un sorriso

per perdonare mortificazioni universali.
donna tra le donne, spirito tra gli spiriti.
l'altra era tinta di rosso passione.
sangue vermiglio la percorreva di visioni celestiali,

mentre ella falciava il mondo a metà

con l'intensità carnale del suo profilo.
l'ultima aveva un mare di acque profonde addosso.
azzurra come i cieli che si concedono a intervalli,

nelle spalle aveva tatuato il candore.
nell'orizzonte era la sua pace.

bi | quindici luglio
 

[william whitaker paintings]
 
 
***

 


mi sporgo nel dubbio di me
ne osservo l'immensità silente
un acuto calore mi pervade
il petto stringe e si ritrae
il corpo tutto annuisce
e dunque varco la prima soglia

bi | due agosto

[la bambina di terra, di john collier]


***
 


smuovo e snodo passi disuniti
una brezza di polvere stellare
si riduce baciandomi il viso
mi bollono dentro i miei oceani
la mia esistenza è virale  
è un'energia che mi abita
non sono mai definita
né definitiva
sono un'anima dispari

bi | nove agosto
 
[ph. bi, ponza]
 
 
***
 
 
 
 
levandomi questo velo di aria frizzante
scogliendomi nodi selvatici e spinosi
mostro agli occhi miei ansiosi
la libertà delle colline
di essere segrete e stondate

bi | ventidue agosto
 
[ph. bi: rosciolo de' marsi, aq]

 
***
 


 
che se ne fa di un'emozione
se non può raccontargliela
di una luna accesa
se non può indicargliela
che se ne fa di un gesto
se lo vede allo specchio
di parole messe in fila
se non può sussurrargliele

bi | venti settembre

[ph. christian schloe, digital art]
 
 
 
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