la vita degli altri è fatta così: di citofoni, cortili e finestre.
ecco perché mi piace tanto camminare e fermarmi a leggere
i citofoni. li leggo attentamente e mi fermo su ogni cognome, chiedendomi se
mai io possa conoscere qualcuno, lì, o se possa averlo incontrato un giorno,
chissà dove.
leggere il citofono è un modo per vivere la vita degli
altri dal piano terra e senza disturbare nessuno. per capire chi abita più
attaccato alla terra e non prende mai l’ascensore e chi è più vicino al cielo e
può stendere i panni nella mansarda comune. per toccare i bottoni in ottone,
belli tondi e tutti lucidati, o quelli di ferro più vecchi e opachi e consumati
dagli indici di tutti.
i citofoni li leggo dall’alto verso il basso, così non
rischio di perdermi nessuno, e ogni volta mi impegno a capire una cosa: quelli
più alto sono quelli dell’attico, o no? e non lo capisco mai, perché forse – mi
dico – questa cosa cambia in ogni condominio.
i cortili, poi. mi è sempre piaciuto girare per i cortili
sconosciuti, quelli con tante aiuole e tante cantine nel piano sotterraneo.
organizzavo delle spedizioni con i miei amici, ai tempi delle medie, e ce ne
andavamo tutti lì: nei condomini degli altri, in terra straniera, dove non
senti niente tuo e respiri l’aria che non t’appartiene. e pure quando scoprivamo
cose che non ci piacessero – la sporcizia buttata a terra, alle volte, o angoli
tetri e pieni di piscio stantio e puzzolente – allora, anche lì, ce lo
scrollavamo di dosso, perché sapevamo di non appartenere a quel luogo.
alcuni erano bellissimi, pieni di viuzze incrociate, di fiori
composti che sfilavano simmetrici, di panchine in ferro o in marmo usate tutti
i giorni dalle natiche delle anziane, e pure così inverditi e pieni di persiane
aperte e semichiuse, alcune più nuove, altre rigate di anni vissuti.
e le finestre, sì, anche quelle amo molto osservare. mi
tuffo per pochi attimi nelle case degli altri, tranne quando sono completamente
serrate o sporche di nero – lì no, ci giro alla larga. mi piace guardarle da
lontano e vedere quanta luce tengano per sé e quanta ne rilascino per gli
ospiti fuori. mi piace immaginare se lì accanto a loro ci sia un divano, se sia
sempre stato lì, o se – come faceva mia madre – fosse stato spostato di tanto
in tanto.
lo aveva sistemato dapprima tutto a sinistra in fondo,
vicino alla finestra, con lo sguardo rivolto alla parete della cucina e la
tenda bianco sporco, che col vento lo lisciava sul lato corto. potevano vederlo
da fuori – pensavo – e vedere che noi ci sedevamo lì dopo le cinque, per
restarcene un po’ tutti vicini, l’uno accanto all’altro. la sera no, ci dividevamo
e io lì ci restavo da sola, a guardare fuori con le luci spente, alla ricerca dei
chiarori altrui. poi mia madre lo spostò appena si entrava a destra, subito
dopo l’arco del salone, e non potei più sdraiarmi coi piedi sulla tenda e lo
sguardo buttato verso fuori.
è bella la vita di voialtri, sapete? siete tutti belli a
guardarvi. ché poi – a pensarci ora – senza guardare la vita degli altri, e ricamarci un
po’ d’immaginazione, la mia è perfino più noiosa.
bi
[ph. bi] |