giovedì 28 novembre 2013

la festa prima della festa


 
di un luogo, quello sì, puoi dire che t’appartiene.
con la stessa forza centrifuga con cui tu appartieni a lui.

 

clara si sposò in agosto. eravamo già lì in vacanza e fu facile radunarci tutti insieme. le giornate erano lunghe e assolate e ci scaldavano quanto bastasse per sentirci ancora il calore bollente addosso durante le serate all’aria aperta. la temperatura notturna scendeva parecchio, anche di oltre dieci gradi, ed il vento s’alzava ogni sera verso le sette, per calmarsi soltanto a notte tarda.
i preparativi ci tenevano lì, tutte cucite perbene con un unico filo sottile, che s’attorcigliava invisibile intorno ai nostri corpi. ognuna aveva infatti il suo bel compito da portare a termine per contribuire alla realizzazione di un grande, grandissimo, enorme evento: la prima cugina della nostra numerosa famiglia si sarebbe di lì a poco sposata con il suo fidanzato. e caspita quanto fosse un evento importante, quello!
ai dolci per accogliere gli ospiti prima e dopo la cerimonia ci pensava mia zia. tutti fatti con le sue dita irregolari e copiose, incavati o bucati o perfettamente tondi e ripieni di marmellata viola scuro. i dolci sono sempre stati il suo piccolo miracolo. ammassava i suoi ingredienti nascosti dentro la dispensa, all’oscuro degli altri, per mantenerne un segreto sempiterno. il suo, solo suo. e mio, pure, che ero al suo fianco e li mangiavo ancora da cuocere, oppure bollenti appena usciti dal forno, e le dicevo prontamente che, sì, anche quel giorno il suo miracolo era riuscita a compierlo alla perfezione.
era fissa davanti al suo tavolo magico, il corpo ondeggiante in una danza regolare e suonata dalle sue vesti fiorate e leggere, le braccia tese, poi un po’ ricurve, di nuovo tese e ancora ripiegate… così, come al ritmo di una canzone confusamente latina. le mani sembravano ingrossarsi e impastavano senza pausa uova con altre uova e zuccheri e farine colorate di chiaro e bustine di misteri mai svelati. e le dita si contorcevano velate nel mezzo di quell’impasto, che sapeva già solo da lontano di paradiso.
poi ecco che creava i suoi piccoli figlietti: tozzetti di biscotti un po’ sgualciti e abbronzati e ciambelline al vino bell’e tonde, che ruotavano in armonia attorno al loro buco. e poi crostatine perfettamente ovali, coperte da un quadrettato simmetrico che disegnava piccoli rombi buonissimi e fragranti e affondate in una marmellata talmente intima da non poterla nemmeno nominare. non di prugne, né ciliegie o fichi o fragole… di tutto un po’, così era fatta, tutta incomprensibile ed impenetrabile, come lei: zia terry.
ai fiori ci pensava mia madre, piena di pollici verdi e foglie interiori. li aveva scelti quasi tutti chiari, come chiara era la pelle inviolata di clara.
c’erano gigli slanciati come l’altezza sua, con il gambo eretto e sbrigativo e al culmine il frutto del loro pensiero leggero: una campana bianca, che risuonava d’amore e purezza. gigli nel salone e gigli lungo la scalinata a ferro di cavallo e gigli in cima al pianerottolo, prima d’entrare nel secondo salone del piano superiore.
c’erano inoltre altri fiori di campanelle rosate, più chiari al centro e meno incerti nei bordi stondati. campanelle, ecco, meno campane dei gigli, più discrete e minuscole quanto bastasse per essere notate da vicino e non da lontano, messe in secondo piano, come fossero delle sorelle minori. poi anche altri fiori minuti, di un giallo timido e poco incline al dialogo.
nel frattempo clara si andava emozionando, esaltando la sua fulgida bellezza. 
era un tripudio. la casa odorava di prati muschiati e addomesticati e s’impregnava di continuo vociare delle centinaia di biscotti sfornati ogni mezz’ora. io mi tuffavo in quell’esultanza, correndo tra le piante e poi tra i biscotti e annusando i fiori e rubando crostatine senza mai essere scoperta.
era una festa prima della festa. una cerimonia familiare prima della cerimonia di tutti, un matrimonio di profumi e sapori e bellezza prima del matrimonio d’amore.
tutte ci appartenevamo, allora, e il filo che ci legava ci apparteneva anch’esso e si torceva sempre più attorno a noi, legandoci per la vita e stringendoci al nostro luogo. come le radici vi ci allacciano gli alberi.

bi


[isadora duncan's dancers, new york 1920]

giovedì 14 novembre 2013

accumulo


autunno mansueto, io mi posseggo
e piego alle tue acque a bermi il cielo,
fuga soave d'alberi e d'abissi.
aspra pena del nascere
mi trova a te congiunto;
e in te mi schianto e risano:
povera cosa caduta
che la terra raccoglie.

salvatore quasimodo, autunno








accumulo cibo sano e molti litri d’acqua, affinché il mio corpo possa essere fiero della mia mente.
tisane da stringere calde tra le mani aride nelle mie solitarie sere invernali, limone spremuto tra i monti di venere e infilato nel tè delle mattine infreddolite.  
accumulo sogni indicibili, cammini eterni in cui scorrono infiniti, mai sfiniti.
notti senza nome, notti assenti di rumori, notti sussurrate, notti consumate fino all’ultimo minuto sotto il ponte della trapunta, che al tempo mi donò mia nonna.
a quadri, verde e viola.
come se già sapesse che l’avrei abbracciata per oltre vent’anni.
accumulo desideri e pensieri e preghiere e sinestesie e luce nelle mani e altre cose così.
accumulo argentei temporali fragorosi e tramonti rosa antichi in cima alle vette appena innevate.
cervi che spiano tra le betulle pendule e si scrostano le corna sui muri delle cortecce delle querce.
accumulo cose che non agiscono, parole che non mi trovano, pensieri che non parlano.
ritorni stanchi e serali, su tracce di musiche lente come ere.
accumulo ricordi mai scordati e sempre accordati, memorie che scivolano leggere e s’infilano negli sguardi annodati.
mancanze di cose minuscole, di scale salite, di giochi gridati d’estate.
accumulo consapevolezze.
e cioè che la mia pelle mi somiglia, che la mia gola mi parla.
che i giudici fanno male più a chi giudica che a colui che viene giudicato.
che l’imperfetto è il tempo per me, mentre il presente mi si accoccola accanto e mi tiene per mano.
che cerco nel passato la donna che sono in fondo.
accumulo baci liquidi come laghi in cui si riflettono le montagne, sentendosi lago anche loro e dimenticando di essere cime.
accumulo speranze di una vita allungata e agita in attivo e in passivo.
in passivo e in attivo.
come un’altalena in cui mi rincorro e trovo sempre i piedi miei.
accumulo sciarpe per far fiorire il collo mio, per essere fiore con i petali che sporgono all’infuori, per fare lo stelo ritto verso il cielo e leggermente ripiegato in avanti, com’a cercarsi le radici.
accumulo rughe che scavano torrenti d’acqua pura sul mio viso, corpi nudi per fare come fa la libertà.
accumulo denti fragili come piccola ossa di bambina.
e poi cioccolate fondenti, paste con i pomodorini appena scottati, la soia in dispensa, l’olio spremuto due settimane fa, le ciabatte col fiocco al centro, il pigiama col prato tatuato.
accumulo amore per stringermelo addosso e farlo volare via, appena si sia scaldato.
luoghi larghi e ariosi, appartenenze mai troppo strette, lacci un poco slacciati.
persone da abbracciare e da chiamare per nome.
accumulo, perché diversamente non saprei fare.

bi
 
 
[immagine di kylli sparre]

lunedì 4 novembre 2013

il due novembre


"qui radichi e cresca! non vuole, per crescere,
ch'aria, che sole, che tempo, l'ulivo!"
giovanni pascoli, canti di castelvecchio


il due novembre è dei morti. che s’illuminano ancora, che si cospargono di fiori allargati e dal profumo acre, che tornano coi vestiti di una volta, colorati di scuro e ben sistemati sui loro antichi corpi esili.
tornano nei ricordi di ciascuno, nei loro passi pieni di lumini da far brillare, nelle loro parole piene di eterni riposi, nei loro sogni, nei loro bisogni.
pare sempre nuvoloso il due novembre, come se il sole non sia necessario, ché i cimiteri da sé rischiarano i paesi e i loro contorni annebbiati. il vento parla deciso, passa la sua mano affettuosa sui visi schiariti da un ottobre trapassato, accompagna i pellegrinaggi tra le tombe piene di presenza e le cappelle spalancate.
entrate, non esitate. siete i benvenuti nella valle dei ricordi e delle memorie familiari. così pare che dicano i cancelli dei cimiteri aperti fino a tarda sera, che luccicano come i boschi di fine giugno abitati da lucciole giocherellone. sono i lumi a giocare a novembre, i bagliori minuscoli dei lumini arrossati che resisteranno, se saranno fortunati, una sessantina di giorni e di notti.
io ci tengo al due novembre. all’uno no, ma al due sì. la morte è una trasformazione che va festeggiata, come una nascita. è una rinascita e io la vedo così.
mi faccio il mio percorso dentro e saluto i miei nonni. sono ancora così, sempre uguali a prima, con quei visi frontali e tatuati di lavoro e fatica.
paolo non l’ho mai stretto corpo a corpo e l’ho sempre immaginato alto quasi un metro e settantacinque, magro e diritto, sorridente e furbo. chi parla di lui lo fa ancora con grande rispetto e sorride. paolo è un sorriso mai incontrato e sempre ricambiato.
anna l’ho amata fin da bambina sul mio divano di velluto color castagna. ampia e vestita di lane arruffate, con lunghi capelli argentei acciuffati in una cipolla intrecciata alla nuca. una diana cacciatrice che profuma di casa e robe cucinate e pane cotto al forno. seduta con fierezza all’angolo del terrazzo solo suo, accanto alla sua fedele rosa spinosa, su una sedia impagliata e leggermente deformata, sulla quale m’accoglieva in ogni istante.
enrico invece è mio zio, uno dei fratelli maggiori di mia madre. è morto nell’ottanta di tumore all’esofago ed è bello come pochi altri uomini mori e di montagna. alto, sicuro di sé e taciturno, vigile come un falco e regale come un principe delle foreste nordiche. lo ritrovo sempre avvolto nel suo sguardo languido e malinconico, uno degli ultimi condivisi coi vivi, credo.
zio bino è lì che sorride e accoglie tutti. come se stesse ancora di fronte al suo camino di marmo bianco, infilato nella giacca grigia da maestro severo e capricornino. come se stesse in cima allo scalino del camino, appunto, ciondolante sulle punte delle sue scarpe stringate in pelle nera. pronto a dirmi: “be’ allora, barbara, che stai studiando?” e a farmi sedere al suo fianco sinistro, per vedere un film di totò o un giallo di hitchcock.
cammino, scansando piante ancora incartate e piene di petali violacei o accesi di giallo. il silenzio domina nella valle e mi sento a mio agio. ci andavo anche di notte, per gioco e per sfida, nelle mie estati abruzzesi di tanti anni fa. e lì, allora, i vicoli apparivano delle possibilità spaventose e opprimenti. ora non più.
arrivo con la macchina la sera ed è una baldoria di luci, che si estendono lungo tutta la valle di santo martino e disegnano presenze remote. immagino il fare disinvolto delle donne che hanno trascorso i giorni appena accaduti a pulire le lapidi, a far sparire fiori secchi e piante sfinite, a pregare mentre spostano la scala alta con le ruote grandi.
il due novembre è di chi resta. di chi fa sparire le pupille al di sotto delle palpebre umide e prova a rappresentarsi nella testa il percorso che dalla vita porta ad un al di là sconosciuto, abitato da una luce supposta.
mi piace il due novembre, mi piace pensare che non ci si scordi di nessuno e che anche i morti più vecchi tornino nelle parole di un presente che non li vede protagonisti.
il due novembre è imbottito di boccioli appena nati, di cimiteri ripuliti e coi varchi allargati, di persone che s’incontrano e si raccontano le cose accadute nell’ultima manciata di mesi, di lacrime sommesse, preghiere dilatate e di luci.
luci accese in ogni dove. luci naturali di candele. luci narrate e non più solo intraviste. luci coraggiose, che cantano esistenza. luci che incendiano memoria orale e scritta. luci dei lumini.
il due novembre è della luce e di chi ha ancora voglia di accenderla, com’a dire che la morte, in fondo, è una candela sempre accesa.  

bi


 

[foto di ingrid endel]