quando mi vestì da rosa, mia madre già conosceva le mie
spine una ad una.
da rosa, sì. mi aveva infilato in fondo a delle calze di un verde piuttosto acceso, inspessite dalla lavorazione artigianale della lana, che costringevano le mie cosce a tirate diritto.
una gonna scampanata rosa tenue s’apriva e restava appesa come fosse un pezzo a sé stante, come se andasse per contro proprio da un’altra parte, a dispetto delle calze.
era di feltro, una lana compressa e schiacciata per me al tempo quasi del tutto impronunciabile.
mi aveva ficcato a salire dentro una maglia sempre molto verde, con il collo alto, rigirato due volte su se stesso a proteggermi la gola.
una rosa, una rosa con le spine.
aculei ancora un po’ inconsapevoli volteggiavano invisibili intorno alla mia esilità, spingendosi oltre il confine tra me e il mondo fuori.
minuscoli pungiglioni verdognoli, da estrarre come denti da latte.
e lei mai mi avrebbe fatto partire dai nonni se ancora ce ne fosse uno, di dente, lì a ciondolare nevrotico.
togliamoci il pensiero, diceva, maneggiando pericolosamente un filo bianco da cucito.
così le spine.
vanno tolte, pensai.
le spine sapevano trafiggere, bucare e raggiungere il dentro, dove il rosso del sangue scorre nascosto.
come una frattura, quelle spine.
uno spazio occupato, un’arma da difesa, un’addizione di corpo piuttosto che una sottrazione, un altrui pericolo, una distrazione, un difetto, una rottura, un dolore istantaneo a cui staccare la spina, quelle spine.
dunque tolsi la prima.
una spina frontale, al centro del mio breve corpo verde di rosa.
saldata alla mia pelle come il più tenace fungo alla corteccia del suo albero padre.
andava presa con coraggio, come il dente, e tirata via. così… tac!
e fu subito sangue.
dapprima intenso: lacrime di spina rosse scure e vogliose di sgorgare e dire a tutti “ecco, siete fuori pericolo”.
rosse più timide, poi, di ferita arresa alla sua fine, di difetto denunciato e rassegnato a se stesso e al suo divenire energia per altre rose.
quando mi vestì da rosa, mia madre non pensava che le spine andassero rimosse.
erano la rosa, in fondo, la rosa con le sue spine.
non difetti da estirpare, per radere il suolo dello stelo e renderlo liscio e perfetto, perfetto per la sua rosa, no.
le spine strappate avrebbero lasciato dei vuoti incolmabili, degli oceani di cicatrici senza più gocce di pianto da asciugare, delle assenze mai più pervase di vita.
- tieniti le spine, ché fa freddo.
mi disse con amore.
e subito capii.
bi
[immagine di fernand khnopff] |