mercoledì 29 gennaio 2014

una rosa con le spine


quando mi vestì da rosa, mia madre già conosceva le mie spine una ad una.
da rosa, sì.
mi aveva infilato in fondo a delle calze di un verde piuttosto acceso, inspessite dalla lavorazione artigianale della lana, che costringevano le mie cosce a tirate diritto.
una gonna scampanata rosa tenue s’apriva e restava appesa come fosse un pezzo a sé stante, come se andasse per contro proprio da un’altra parte, a dispetto delle calze.
era di feltro, una lana compressa e schiacciata per me al tempo quasi del tutto impronunciabile.
mi aveva ficcato a salire dentro una maglia sempre molto verde, con il collo alto, rigirato due volte su se stesso a proteggermi la gola.
una rosa, una rosa con le spine.
aculei ancora un po’ inconsapevoli volteggiavano invisibili intorno alla mia esilità, spingendosi oltre il confine tra me e il mondo fuori.
minuscoli pungiglioni verdognoli, da estrarre come denti da latte.
e lei mai mi avrebbe fatto partire dai nonni se ancora ce ne fosse uno, di dente, lì a ciondolare nevrotico.
togliamoci il pensiero, diceva, maneggiando pericolosamente un filo bianco da cucito.
così le spine.
vanno tolte, pensai.
le spine sapevano trafiggere, bucare e raggiungere il dentro, dove il rosso del sangue scorre nascosto.
come una frattura, quelle spine.
uno spazio occupato, un’arma da difesa, un’addizione di corpo piuttosto che una sottrazione, un altrui pericolo, una distrazione, un difetto, una rottura, un dolore istantaneo a cui staccare la spina, quelle spine.
dunque tolsi la prima.
una spina frontale, al centro del mio breve corpo verde di rosa.
saldata alla mia pelle come il più tenace fungo alla corteccia del suo albero padre.
andava presa con coraggio, come il dente, e tirata via. così… tac!  
e fu subito sangue.
dapprima intenso: lacrime di spina rosse scure e vogliose di sgorgare e dire a tutti “ecco, siete fuori pericolo”.
rosse più timide, poi, di ferita arresa alla sua fine, di difetto denunciato e rassegnato a se stesso e al suo divenire energia per altre rose.
quando mi vestì da rosa, mia madre non pensava che le spine andassero rimosse.
erano la rosa, in fondo, la rosa con le sue spine.
non difetti da estirpare, per radere il suolo dello stelo e renderlo liscio e perfetto, perfetto per la sua rosa, no.
le spine strappate avrebbero lasciato dei vuoti incolmabili, degli oceani di cicatrici senza più gocce di pianto da asciugare, delle assenze mai più pervase di vita.
- tieniti le spine, ché fa freddo.
mi disse con amore.
e subito capii.

bi
 
 
[immagine di fernand khnopff]
 

giovedì 23 gennaio 2014

se dico quadri a cosa pensi?

 
quando non ho più blu metto del rosso
pablo picasso



se dico quadri a cosa pensi?

che avevo due gonne scozzesi a pieghe.
(belle, bellissime).
spesse come il sostegno di mia madre, che mi prese per mano e mi portò davanti al portone della mia prima elementare. mi sentivo così coraggiosa, con lei legata a me, che avrei potuto affrontare l’intera vita mia con la criniera a precedermi e la coda a seguirmi.
una era blu e verde, scura e morbida, con un fermaglio infilato nello spacco frontale, che m’apriva la gamba sinistra. uno spillone, tipo, infilato dal basso verso l’alto.
(infilato dalle radici verso le foglie).
l’altra era bizzarra e colorata, non convenzionale. dal giallo, al rosso, al blu, al verde, una mistura di colori primari che lasciavano ampio spazio agli ibridi, tipo il verde, che è il figlio del blu e del giallo insieme.
belle, bellissime, piene d’anima quelle gonne, così tanto amate da farmi dimenticare la scomodità di non poter fare le capriole riverse.

se dico quadri a cosa pensi?
 
che mi serrava la chiusura di un cappotto rosso, pure scozzese.
(era bello lo scozzese: mai ripetitivo, costruito con tinte disunite eppure così armoniosamente rilegate dai quadri).
me lo chiudeva stretto in gola, ché aveva il collo alto, e s’assicurava che lo tenessi così: a custodirmi tonsille e cavità orali.
era apprensiva, mia madre, ed io piuttosto cagionevole. negli orecchi, sempre troppo infiammati, a tal punto da infiammarmi le interiora e farmi salire stati febbrili molto alti. e nella gola, parlante eppure assai silenziosa.
era caldo, rosso quanto bastasse, fin sopra al ginocchio, con la cerniera lunga e laterale, ruvido e caparbio, protettivo e accogliente.
(era il mio cappotto a quadri).

se dico quadri a cosa pensi?
 
alla mia e alla sua camicia. ne avevamo due simili e al tempo mi sembrava di essere già come lei. appena adulta, sorridente e piena di braccia che s’abbracciavano strette a me.
eravamo sul sirente, in una piccola baita in mezzo al bosco. era lì che ci aveva portato mio padre quella domenica e sembravamo un quadro di manet. mio nonno alternava pose rigide e sicure, eternamente seduto sulla panca di legno grezzo, accanto all’incertezza di mia nonna, spesso girata di tre quarti in sorrisi chiusi e gentili. mio cugino, esile come me, m’inseguiva senza sosta e s’inerpicava in cima alle salite in terra battuta, solo perché io lo precedevo. mio padre c’inquadrava e incastonava nei suoi scatti patinati e sempre precisi e mia madre ci teneva tutti d’occhio, pronta a balzare dalla sua sedia.
io e lei avevamo la stessa camicia a quadri, sui toni del bosco e della terra battuta. ed io mi sentivo invincibile.

se dico quadri a cosa pensi?
 
a due triangoli rettangoli isosceli che si baciano.
al quadro che ha dipinto mio padre e ai tre che ha fatto mia sorella.
ai risultati dell’esame di maturità, costato lacrime amare e titubanza.
alle assonometrie.
alle quadrature dei pianeti.
al piumone di mia nonna.
ai cavalli appesi in cima alla testa del mio letto.
al primo regalo che gli ho fatto.
alla copertina di un libro.
all’album da disegno.
al pavimento della loggia di mia zia.
alle tovaglie.
alle finestre.
alla scacchiera e ai nostri pomeriggi a giocare a dama.
alle tasche a toppa.
alla cornice intonata alla foto.
al mio passato.
al fatto che, se non quadra, è bello che resti tondo.

bi
 
[image of margo selski]

lunedì 20 gennaio 2014

#inveritavidico


#inveritavidico

ero certa che sarei riuscita a mangiare mezzo pacchetto di wafer al cioccolato e invece no: tutto.
che le bolle fossero una cosa vintage come il mangiadischi quarantacinque giri e manco per niente. più io le semino, più loro mi ritrovano.
ho sempre creduto che il mio peggior nemico fosse l’obbedienza, invece ci sono il prurito e l’acrilico (maledetto acrilico).
che il nero snellisse, invece dipende dalle tinte: alcune sono proprio tossiche.
pensavo che la pasta integrale ci mettesse più di quindici minuti a cuocere, mentre ne impiega solo otto (fai pure sette).
che uno restasse amico per sempre, invece alle volte ci resti solo tu. e l’altro? dice che ti pensa. ma tanto, eh?
credevo in un dio con la barba e mo tutti con la barba che va tantissimo di moda. e sono tutti più belli comunque, non c’è che dire. ché come ho letto un giorno “ogni volta che un uomo si taglia la barba, un ormone femminile si suicida”.
ero sicura delle facoltà mentali, dell’intelligenza, del sapere e saper insegnare. poi però ho scoperto l’immaginazione e il lato destro del cervello ed è stata subito dicotomia.
temevo il vuoto e il silenzio, ora sento che il vuoto sia un mondo invisibile necessario e più materiale del materiale e che il silenzio sia meravigliosamente così.
(silenzio)
sono sempre stata bene in compagnia, alle volte l’ho cercata con affanno. e poi niente, ho conosciuto me. all’inizio m’è preso un colpo, ma in seguito mi sono pian piano innamorata. ora sono la miglior compagna di me stessa, ancora piuttosto severa, ma generosa e appassionata.
pensavo che il mare fosse l’unico posto per me e invece ci sono i boschi odorosi e parlanti, le colline che cadono dolci verso il verde delle valli, le montagne sacre e i paesi con poche centinaia di abitanti.
ho sempre creduto che l’influenza fosse una disgrazia e una sfortuna. invece è fare colazione a letto con cornetto, tè e spremute d’arancia, avere coccole e tant’amore sopra, sotto e tutt’intorno, rallentare e fermarsi, dormire e fare sogni lunghi come ere, stare in silenzio nel letto, guardare film e case ristrutturate e costruite sugli alberi e case di campagna e case con cui sognare da svegli, prolungare di un giorno perché sì, dire sì dove avrei detto no non posso, dire fare e baciare, lasciar andare, abbandonarmi, rubare il piumone, costruire, gioire, non voler tornare.

ah, com’è bello essere incoerenti con se stessi.    
 
bi



[immagine tratta da internet]

martedì 14 gennaio 2014

abito


abito i tuoi occhi color buio
col mio vestito a fiori di carne intessuto
e li sento che m’inseguono in silenzio
e mai mi perdono in quest’orizzonte

ho raccolto parole d’amore e ardore
le ho disegnate per te
mietute un mattino alle nove
per avvolgerle nell’abbraccio mio di ieri

ti sento nell’acqua che m’imbeve il grembo
negli echi della pioggia tiepida e tempestosa
nella quiete del sonno che mi possiede
nel fresco di una sera novembrina

mi mescolo nell’aria penetrante dei tuoi risvegli
nell’alito di vita che ti brucia nello stomaco
nella schiena che non pieghi
nell’infinito bacio all’alba sulla panchina

abito i tuoi capelli color ombra
li trapasso con le mie dita fanciulle
e t’aspetto come una dea del bosco
attende con ansia e incanto una grande magia

bi


[ph. parigi 16 novembre 2013]


"l'amo quando di notte o di mattina mi sveglio e vedo: lei mi guarda e mi ama. e nessuno, meno di tutti io, può impedirle di amare come lei sa, a suo modo.
l'amo quando è seduta vicino a me, e noi sappiamo che ci amiamo l'un altro, ed essa dice: lëvočka, e si ferma: perché i tubi del camino sono dritti? oppure perché i cavalli vivono a lungo? o cose simili.
l'amo quando stiamo a lungo soli, e io dico: che facciamo, sonja? che possiamo fare? lei ride.
l'amo quando s'arrabbia con me e d'improvviso, in un batter d'occhio, il suo pensiero e le sue parole diventano aspri: smettiamo, mi dai fastidio; dopo un minuto già mi sorride timidamente.
l'amo quando lei non mi vede e non sa che ci sono, e io l'amo a modo mio.
l'amo quando è una bambina col vestito giallo e sporge la mascella inferiore e tira fuori la lingua, l'amo quando vedo la sua testa rovesciata all'indietro, e ha il viso serio e spaventato, infantile e appassionato".


lev tolstoj, i diari