“quando non
ho più blu metto del rosso”
pablo picasso
se dico quadri a cosa pensi?
che avevo due gonne scozzesi a pieghe.
(belle, bellissime).
spesse come il sostegno di mia madre, che mi prese per mano e mi portò davanti al portone della mia prima elementare. mi sentivo così coraggiosa, con lei legata a me, che avrei potuto affrontare l’intera vita mia con la criniera a precedermi e la coda a seguirmi.
una era blu e verde, scura e morbida, con un fermaglio infilato nello spacco frontale, che m’apriva la gamba sinistra. uno spillone, tipo, infilato dal basso verso l’alto.
(infilato dalle radici verso le foglie).
l’altra era bizzarra e colorata, non convenzionale. dal giallo, al rosso, al blu, al verde, una mistura di colori primari che lasciavano ampio spazio agli ibridi, tipo il verde, che è il figlio del blu e del giallo insieme.
belle, bellissime, piene d’anima quelle gonne, così tanto amate da farmi dimenticare la scomodità di non poter fare le capriole riverse.
se dico quadri a cosa pensi?
che mi serrava la chiusura di un cappotto rosso, pure
scozzese. (era bello lo scozzese: mai ripetitivo, costruito con tinte disunite eppure così armoniosamente rilegate dai quadri).
me lo chiudeva stretto in gola, ché aveva il collo alto, e s’assicurava che lo tenessi così: a custodirmi tonsille e cavità orali.
era apprensiva, mia madre, ed io piuttosto cagionevole. negli orecchi, sempre troppo infiammati, a tal punto da infiammarmi le interiora e farmi salire stati febbrili molto alti. e nella gola, parlante eppure assai silenziosa.
era caldo, rosso quanto bastasse, fin sopra al ginocchio, con la cerniera lunga e laterale, ruvido e caparbio, protettivo e accogliente.
(era il mio cappotto a quadri).
se dico quadri a cosa pensi?
alla mia e alla sua camicia. ne avevamo due simili e al
tempo mi sembrava di essere già come lei. appena adulta, sorridente e piena di braccia
che s’abbracciavano strette a me. eravamo sul sirente, in una piccola baita in mezzo al bosco. era lì che ci aveva portato mio padre quella domenica e sembravamo un quadro di manet. mio nonno alternava pose rigide e sicure, eternamente seduto sulla panca di legno grezzo, accanto all’incertezza di mia nonna, spesso girata di tre quarti in sorrisi chiusi e gentili. mio cugino, esile come me, m’inseguiva senza sosta e s’inerpicava in cima alle salite in terra battuta, solo perché io lo precedevo. mio padre c’inquadrava e incastonava nei suoi scatti patinati e sempre precisi e mia madre ci teneva tutti d’occhio, pronta a balzare dalla sua sedia.
io e lei avevamo la stessa camicia a quadri, sui toni del bosco e della terra battuta. ed io mi sentivo invincibile.
se dico quadri a cosa pensi?
a due triangoli rettangoli isosceli che si baciano. al quadro che ha dipinto mio padre e ai tre che ha fatto mia sorella.
ai risultati dell’esame di maturità, costato lacrime amare e titubanza.
alle assonometrie.
alle quadrature dei pianeti.
al piumone di mia nonna.
ai cavalli appesi in cima alla testa del mio letto.
al primo regalo che gli ho fatto.
alla copertina di un libro.
all’album da disegno.
al pavimento della loggia di mia zia.
alle tovaglie.
alle finestre.
alla scacchiera e ai nostri pomeriggi a giocare a dama.
alle tasche a toppa.
alla cornice intonata alla foto.
al mio passato.
al fatto che, se non quadra, è bello che resti tondo.
bi
[image of margo selski] |
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