una notte si svegliò che aveva un vulcano dentro. accese
la luce in fretta e si alzò ritta sulla schiena, gli occhi di fuori. il cuore
galoppava selvaggio e pareva ribellarsi allo spazio che lo conteneva.
una notte si svegliò che ardeva ed eruttava. sembrava che
dovesse buttare fuori il rosso del fuoco, unito al nero ingrigito della brace,
e far tremare il letto, come solo un terremoto spaventoso sarebbe capace di
fare.
questo stava accadendo e la paura le faceva fuggire il
cuore ancora di più prepotentemente. le bussava in petto coi pugni stretti a
morte e batteva, batteva, batteva potente più che mai, pronto a fuggire lontano
chissà dove.
ad un tratto la luce lieve del suo lume non bastava più a
rassicurarla e, con l’ara intrappolata nella gola, disse due volte il mio nome.
la prima volta mi chiamò sbiadita. la seconda pronunciò il mio nome
terrorizzata, ansimando angoscia.
- che hai?
solo questo le chiesi e subito capii che occorreva
accendere anche l’altro lume. boccheggiava con affanno e di nuovo il vulcano cominciò
ad eruttarle dentro. bianca come un fantasma, mi spalancò il viso davanti,
chiedendo aiuto con il timore negli occhi. mi alzai svelta e la presi piano tra le mani.
- vieni, vieni nel mio letto.
si stese davanti a me, con la pancia volta al soffitto, e
prese a respirare più veloce. le presi la mano. ero girata sul lato destro e la
guardavo fissa. ero certa che il mio sguardo addosso l’avrebbe tranquillizzata
un po’.
si girò anche lei sul lato destro. le carezzavo la mano, le sfilavo i capelli dal viso, il mio abbraccio le fasciava la schiena, in attesa che il respiro rallentasse quella corsa. sentivo con le dita il suo viso inumidito dalla
preoccupazione del vulcano che le batteva dentro.
nel frattempo il mio letto era nel mezzo di un terremoto. il suo
cuore sembrava avercela col mond’intero, bestemmiandole dentro contro la vita e
contro quella notte piena di buio e di ore insonni da dormire. galoppava veloce, pazzo di furia e pieno di forza.
eravamo distese,
una attaccata all’altra, come fossimo per terra, su un terreno bollente in cui
accanto scorreva lava rosso fuoco, che ci colava viscida tutt’intorno. il
vulcano si era svegliato nel pieno della notte e noi non avevamo fatto in tempo
a fuggire, perché lei ce lo aveva in petto. i minuti correvano pure loro, tutto mi pareva più rapido
e mi scivolava dalle dita. provavo col mio respiro a dare ritmo al suo,
facendolo rallentare per quanto fosse stremato da tanto fuggire.
piano piano il vulcano abbassò la voce e si piegò
all’unico epilogo possibile: spegnersi per morire un po’. la lentezza la prese
per mano e la accompagnò a farsi calmare dal silenzio della notte. respiri più
lenti, il cuore calmato, il corpo più leggero: il vulcano s’era finalmente sopito. eravamo stremate. avevamo combattuto e vinto contro il
vulcano e il suo feroce furore.
una notte si svegliò che aveva un vulcano dentro. con la luce del mattino ci abbracciammo e il suo petto aveva smesso di eruttare.
bi
una notte si svegliò che aveva un vulcano dentro. con la luce del mattino ci abbracciammo e il suo petto aveva smesso di eruttare.
bi
[ph. francesca woodman] |
“era ancora troppo giovane per sapere che la memoria del
cuore elimina i brutti ricordi e magnifica quelli più belli, e che grazie a
tale artificio riusciamo a tollerare il passato”.
gabriel garcia marquez, l’amore ai tempi del colera
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