martedì 22 novembre 2016

lo chiamavano zengaritto


lo chiamavano zengaritto, ma io non l’ho mai conosciuto. perché aveva la pelle olivastra, dicevano, come uno zingaro, e pure perché era un commerciante assai scaltro. non un millantatore, non era questo, era uno che sapeva farci con le persone, perché vendeva il suo viso magro e la propria credibilità prima di ogni cosa.

ai mercati generali di roma lo conoscevano tutti. ecco il venditore di carne di pecora! dicevano. e la compravano a parole, senza che lui ne portasse lì in mostra neanche un pezzo. gliela sapeva raccontare e sapeva narrare le storie delle sue pecore. mangiano bene, dimorano in una casa di tre piani e pascolano erba felice. così diceva. e loro compravano quelle sue parole piene di storie. vendeva le loro carni ancora vive, dopo averne selezionato, contato, nutrito, accudito ogni piccolo angolo.

un giorno un giovane pastore del suo paese andò in un grossa fiera in puglia, per comprare pecore. era grande la puglia, stretta e lunga, non aveva le montagne abruzzesi ed era lontana e sconosciuta. questi si ritrovò a contrattare per un gregge, ma il pugliese voleva parecchi soldi. da dove vieni? gli chiese il pugliese. dall’abruzzo, rispose il pastore. un mio paesano, paolo, viene qui ogni tanto a comprare le pecore, ma queste sono troppe per me. chi è paolo? gli chiese il pugliese. è zengaritto, gli rispose. zengaritto, hai detto? allora prendile tutte, me le pagherai quando avrai i soldi. gli facevano credito tutti, perché pagava tutto con gli interessi e con ampie strette di mani. e facevano credito pure agli amici suoi, soltanto perché li mandava zengaritto.

non fece una vita soltanto felice, alle volte si ritrovò solo, altre volte aiutava le famiglie del paese con quel poco che aveva. eppure assicurò una casa e molti momenti di gioia alla sua famiglia allargata. chi lo racconta ancora oggi sorride. era bello zengaritto, poco slanciato, magro, fiero e con gli occhi scuri pieni di cuore.

zengaritto morì il ventisei aprile del millenovecentocinquantatré di cancro all’esofago. sorrise anche quel giorno, in cima al letto della prima stanza a sinistra del pian terreno. lasciò sua moglie piena di silenzio e di figli da campare, ma forte, sicura di sé e grande guerriera. lasciò mia madre, a nove anni, troppo presto senza suo padre.

- bi


[ph. francis picabia "couronne de melancolie"]

martedì 20 settembre 2016

il bagno da uomini


altre volte era accaduto, che io entrassi in quel bagno e il tempo sembrasse rimasto immobile ad allora. un bagno da uomini, stretto e rettangolare, blu e bianco, con una finestra piccola e vicina al soffitto. per anni mi chiesi dove s’affacciasse e la risposta sembrava restare ogni volta un mistero: doveva essere proprio una finestra aperta su un segreto.

mi siedo. la tavoletta è fredda come se fosse natale e le voci degli altri giungono ovattate. non ho bisogno di fare presto quando sono lì, il tempo non incalza ed è clemente. il tempo lì mi aspetta sempre. il tempo lì tace e ascolta.

sulla sinistra c’è un ripiano maiolicato, una nicchia, in realtà, che è poi la nicchia di sempre. ci sono i suoi occhiali neri con le lenti profonde, riposti dentro alla custodia di pelle marrone. la montatura è spessa e la vedo ancora poggiata sul suo viso magro e pieno della sua pungente ironia. proprio lì di fianco ci sono i suoi cruciverba, ancora da terminare. l’ho detto, il tempo lì non fa domande, non si sposta col suo ticchettio incalzante e attende che tutto si risolva con la calma.

è dei primi anni del duemila, la rivista con i cruciverba, e mantiene stretta tra le pagine ancora bianche e fresche una penna nera. che disagio le penne nere, che penne da uomini, che penne crudeli! penso, mentre la afferro, desiderosa di continuare quell’opera incompiuta.

incastro parole difficili, altre più semplici, e gli chiedo: sei dunque soddisfatto? nonostante gli anni scorrano via, il bagno è rimasto come lo hai lasciato tu. il freddo sotto alle natiche non è cambiato affatto, il blu delle maioliche non è sbiadito, la finestra è ancora alta e nasconde gelosamente il suo panorama indicibile, la nicchia mantiene ancora i tuoi segreti. le parole, solo quelle posso aggiungere, per continuare una narrazione silenziosa, che non abbiamo dimenticato, qui dentro, nel tuo bagno, dove tu ci sei ancora in questa quiete.

a zio b.
 
- bi
 
 
[da "nostalghia" di andrei tarkowski]
 
 

mercoledì 15 giugno 2016

come se fosse ogni volta la prima


siamo intorno al tavolo e inevitabilmente, come accade in ogni cena, ci raccontiamo di quando eravamo bambini. di quando loro facevano alla lotta, che continuano a fare oggi, pure se hanno cinquant'anni e si sgretolano ogni volta millimetri quadrati di ossa. alla lotta, dicevo, e ad un tratto entravo in camera io, vispa e imbronciata, e loro smettevano e prendevano il mio corpo esile e cominciavano a farlo volare da una parte all'altra ed erano tutte risate e sottili grida e ancora risate e loro non si stancavano e io non mi impaurivo.

e di quando mi tappavano le narici, prima ch'io potessi riempirmi d'aria, e per brevi secondi di puro sadismo mi impedivano di respirare e poi finalmente stappavano le narici e io riprendevo la corsa affannata alla vita, che entra nel naso e gira vorticosamente dentro, in fondo, e sbuffa dalla bocca. e di quando volevo il gelato panna e cioccolato e l'attesa era tutta un'emozione e sorridevo parecchio e il cono alla fine sembrava sempre troppo piccolo e mi ritornava il solito broncio e quel giorno, sullo sfondo dei miei capricci, zio prese il cono panna e cioccolato e me lo appiccicò sul naso e sulla bocca e mi azzittì all'istante. e di quando a natale arrivai con un bambolotto che avrebbe fatto pipì, se gli avessi dato da bere acqua con quel suo biberon, e loro anziché l'acqua ci misero l'olio, sì, proprio l'olio extra vergine della cucina di zia e il bambolotto fece subito pipì e si macchiò per sempre la tuta beige che diventò, proprio lì, color nocciola scuro. 

e di quando, ormai grandi, ci vediamo sempre poco, ché viviamo lontani e abbiamo le nostre vite un po' segmentate in differenti dove e allora incontrarci diventa un'impresa quasi epica. ma poi non appena ci vediamo il tempo sembra non averci mai separato e torniamo subito lì nella cameretta di sempre e siamo di nuovo bambini e sempre molto più che cugini, fratelli, sì, ché abbiamo condiviso le nostre madri e i nostri padri molte volte.

i compleanni servono anche a questo: a farci stare una sera seduti a tavola a raccontarci, instancabilmente, sempre le stesse cose e ad ascoltarle con quello stesso stupore, che ride da sé, come se fosse ogni volta la prima.

- bi


[illustrazione di lisa evans]


martedì 31 maggio 2016

nel nome del padre


mio padre è uno di poche parole e di grandi sospiri. le parole gli pesano in bocca e d'improvviso esplodono. è un essere delicato, di una grazia senza tempo, ineguagliabile, inattaccabile, amabile.
ha sempre parlato con i versi del suo violino, che regna ancora lucido in cima al mobile in cui continua a riporre tutti i suoi segreti. spolverare quel violino ha sempre una sacralità senza tempo, ripiena di preghiere senza voce. è un violino rigato di gesti. i suoi, i nostri.
la voce di mio padre suona. le sue lunghe dita suonano. i suoi occhi verde prato invernale suonano. le sue gambe fragili suonano.
 
(intesi?)

le sue parole sono note. io con le mani rompo tutto e con le parole riaggiusto più o meno ogni cosa. lui con le parole si rompe la lingua, ma con la sua musica fa volare le catene montuose.

- bi



[ph. albarrán cabrera]

mercoledì 27 aprile 2016

odio gli amaretti


non far morire il tuo sguardo sul marciapiede, avrei voluto dirle. alzali, quegli occhi spenti, facci entrare un po’ della luce del sole.

con luisa frequentavamo la stessa classe alle medie. non lo stesso banco, ma poco importava, perché io mi spostavo in continuazione, tranne durante le spiegazioni. mentre interrogavano sì, mi mettevo più avanti possibile, cosicché, se fosse servito un suggerimento, lo avrei potuto lanciare.

luisa no, restava sempre accanto alla sua compagna di banco, lì vicina, al sicuro dai discorsi. era riservata e le brillavano gli occhi scuri e quei riccioli sottili, pure, splendevano di carnalità. le sfioravano appena le spalle ed erano sempre ventosi: bastava un alito per farli dondolare al ritmo dell’aria.

ieri l’altro sembrava invece una mina vagante senza innesco. ti sei forse smarrita? avrei voluto chiederle. procedeva con passi incerti, uno sconnesso dall’altro, come se le gambe appartenessero a due corpi diversi. ciao, luisa! le ho detto, incrociandola. e l’ho fatta saltare, come se l’avessi destata da un sonno profondo del primo mattino. sembri in attesa della tua vita da qualcun altro, avrei voluto sussurrarle nell’orecchio nascosto da pochi riccioli cadenti.

questo luogo fatto di mille occhi mi osserva sfacciato, sembrava volermi dire con quel suo ciao appena accennato. non che non avesse piacere di avermi incontrato, non era quello. avevo come la sensazione che non avesse più con sé una madre che la facesse sfebbrare e le rasserenasse la fronte bollente. silente, prudente e troppo sensibile, così la ricordo, con meno rughe ai bordi del viso ed una pelle più accesa.

ne vuoi uno? le ho detto. odio gli amaretti, mi ha risposto, lasciandomi, muta, sul ciglio della strada affollata.
 
- bi
 
 
[ph. michaela meadow]
 

mercoledì 30 marzo 2016

la dirimpettaia #3


la figlia della dirimpettaia fa la ruota lungo l'asse della porta finestra. dev'essere felice, perché ne fa a ripetizione, senza stanchezza e con profonda leggerezza. poi si alza, inneggia con le mani verso il soffitto, come ad indicare uno ad uno i pianeti lontani. non riesco a sentire se ci sia la musica, ma sua figlia è musicale già solo ad osservarla.

io ero felice, a fare le ruote. una sull'altra, alcune diritte, altre tagliate, affilate finché ci fosse spazio. poi arrivavo a sentire una lieve fitta all'inguine e pensavo a quanto fossero ben fatti tutti quei cerchi concentrici, che andavano a spegnersi sul pavimento di marmo, uno ad uno, come disegnati con un compasso.

oggi il sole è forte, la luce è calda, la primavera insiste. rientro. il profumo del cedro sta scaldando la mia stanza, condita dai fiori che ho comprato oggi. freschi. nuovi. alti. gialli.
 
- bi

[ph. thanh-tung nguyen]

lunedì 29 febbraio 2016

la dirimpettaia #2


erano lacrime quelle che si spostò dalla guancia la dirimpettaia. restò immobile nel balcone, mentre la sua casa era illuminata dalle luci artificiali della sera. il vento era forte e spostava in fretta una pioggia collerica.
si intrattenne a lungo nel buio delle sue piante basse e portò più volte la punta delle dita negli occhi. li strofinò, poi si raggomitolò nuovamente attorno ai pensieri suoi. qualcuno aveva alzato la voce poco prima in casa sua e quel rimbombo innaturale la scosse, andando a risuonare nei coni delle orecchie e terminando nei vicoli scuri della pancia.
dovrebbe imparare a fare la voce piena, pensai, perché quando uno grida si dovrebbe andare due toni e un diesis più su, per difendersi le pareti del costato, anziché restare in silenzio e piovere dolore dagli iridi.
pianse senza voce, pianse con le mani sul viso. si disegnò delle parabole invisibili sulle guance e si schiarì, senza saperlo, la pelle. forse è sempre una sconfitta per il cielo una persona che lacrima o forse sono nutrimento per l'aria tiepida quei suoi umori trasparenti, che scivolano sottili verso la terra.
quella sera portai una mano dietro alle foglie del ficus del mio balcone, diritta verso la sua ringhiera, ma lei non poté scorgere quel mio goffo tentativo di raggiungerla. avrei voluto che l'avesse afferrata e se la fosse portata tra i suoi ricci corti e neri.
c'è vita che nasce, avrei voluto dirle, tra i tuoi capelli: stanno nascendo giovani castagne tra i tuoi ricci... non aver paura.

- bi

['sweet nightmares' by ania tomicka]

venerdì 15 gennaio 2016

la dirimpettaia #1


ha già da giorni liberato le lucine dal terrazzo e le ha fatte volare via, lontano, verso il freddo. al loro posto ha piantato dei panni molto scuri e stesi a testa in giù; hanno già il sangue al cervello ed il viso rosso fuoco.

i giorni di festa sono tramontati e siamo nuovamente noi: io e lei, io e la dirimpettaia. ci separa un debole freddo invernale, che soffia verticale a bassa voce; ci divide la siepe, eppure, seduta a terra a gambe incrociate, io riesco ad osservarla ugualmente. è sempre piena di andirivieni: esce, riordina, entra, accende un'altra luce, prende cose, fuoriesce di nuovo a mani piene e si china in un angolo del suo balcone. io resto ferma. non ho forze, ho terminato la mia giornata e mi godo il silenzio buio fuori. accarezzo le foglie del ficus, le sento tremare dal freddo e le scaldo con il pollice e l’indice, che si sfiorano più volte e creano dei vortici invisibili.

si accende una sigaretta e si chiude la finestra alle spalle. tira le prime due boccate e posa gli avambracci sulla ringhiera. mi sta guardando ora, lo sento, ed io continuo ad osservare lei. siamo le amiche del balcone, che nulla sanno l'una dell'altra, se non che la mia luce è già spenta ed il mio sonno è già energico, mentre lei continua a disegnare con i piedi alternati milioni di traiettorie dal suo dentro al suo fuori.
 
- bi

 
auguri, radicamenti!
auguri alla pioggia che ti ha creato, al vento di gennaio che ha mosso in te parole e pensieri. auguri alle storie, che vogliono essere raccontate. auguri alle poesie, che guardano le soglie.
auguri per i tuoi primi quattro anni.

 
 
[amanda clark]