giovedì 6 febbraio 2014

ci vediamo alle nove


c’è lei e c’è il suo stupido cappotto. lungo fin sotto al ginocchio e del colore timido del miele appena nato di giugno. tenero, vellutato, se lo passa sotto i polpastrelli increspati dall’inverno che lo accarezzano, lisciandolo perbene e con compiacimento.  
un po’ stretto, quel copricapo, quasi a stringerle le costole l’un l’altra. l’aria buia le taglia il viso di traverso, ecco perché si stringe a morte addosso a se stessa, e sbuffa, sbuffa umidità dalla bocca.
si annoia ad aspettarlo, si annoia tutte le volte che lo aspetta. e l’attesa è sempre la sua, mai degli altri. è piena di fissazioni di arrivare puntuale, di partire un’ora prima, di imbattersi nelle code del traffico serale, di non volersi presentare lì davanti piena d’affanno e col naso che coli. in anticipo, si muove per tempo e giunge a destinazione a pochi minuti dall’orario stabilito.
lui non c’è. s’è sciolta i capelli e li ha lasciati senza riga, nel vano un tentativo di sembrare scompigliata e un po’ improvvisata, invece la linea sparpagliata l’ha sistemata prima di scendere dalla macchina, voltando su di sé lo specchietto retrovisore.
profuma di sandalo e rose e ha negli occhi le pagliuzze giallastre che scintillano ad ogni riverbero. capace di sfondare un muro quella luce intensa, accesa sul viso di sbieco e piuttosto scostante. e ignora lo sguardo di chiunque si trovi a passarle nei pressi, lo trapassa con quel bagliore fulmineo delle pupille per non incendiarlo, per non incenerirgli il corpo - ché ne sarebbe capace, eccome.
tralascia tutti e cerca solo la sagoma di lui. si regge altera in cima a quei tacchi impervi, come una fiera piena di zanne e ruggiti soffocati dentro, pronti ad esplodere.
è in compagnia della colonna, sulla quale ha adagiato la spalla sinistra per la noia dell’attesa, ed entrambe stanno lì, sostenendosi con reciprocità di cosa viva e cosa morta e scambiandosi atomi di pesantezza.
il vento le sposta i capelli, facendoli restare impressi sulle labbra lucidate di color carne. i minuti si succedono distratti, mentre lei non perde una figura che s’affacci di fronte al suo orizzonte.
ancora la sua non c’è, ma lei sa che non tarderà ad arrivare. freme nella bocca dello stomaco dalle prime ore del pomeriggio, sapendolo suo per l’intera serata, e continua a contorcersi dentro, mentre si sottrae ai suoi pensieri per accendersi una sigaretta.
smucina di fretta nella borsa senza fine, ricordando che fossero sulla sinistra le sigarette, non nel fondo o dentro una tasca, proprio nell’angolo a sinistra dove le aveva insaccate per ritrovarle al primo tentativo.
la accende finalmente e torna a perdersi in quelle linee d’ombra del parcheggio. non arriva. l’attesa trepida, consuma i suoi sospiri di tabacco velocemente. gli odori della città e della sospensione del tempo si fondono con la nube di sandalo e rosa che la avvolgono e che le sono rimasti intrisi nella sciarpa.
si stringe ancora addosso a se stessa. il gelo la costringe a ritrarsi e a ripiegare le spalle su di sé, abbassando nervosamente gli occhi.
non c’è. lui non c’è. c’è lei e c’è il suo stupido cappotto miele ad aspettarlo. lui non c’è e non verrà. capita sempre così alla fine e quello che deve succedere non accade mai.
se ne tornano a casa, lei, la sua scia femminile e solitaria, quell’attesa smorzata dalle gelide illuminazioni del parcheggio e il desiderio profondo di incontrare, presto - finalmente - quell’uomo che la inviti a vedersi. alle nove. puntuali.   

bi



[immagine di amy judd]



"il pomeriggio è il tempo intermedio.
coloro che amano non hanno il coraggio di annunciarsi.
coloro che sono amati si fanno aspettare.
l’attesa dilata innaturale le sedie,
schiaccia il telefono come un’alta temperatura,
i muri divengono pneumatici, tanto che invano
ci sbatti la testa, nessun dolore ti risveglia;
l’universo intero è anestetizzato".
 
nina cassian, l’arte dell’attesa

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