giovedì 20 febbraio 2014

mi sto abituando al poliestere


 
"e se nessuno ti parla, allora ti tocca pensare.
e io non facevo altro, allora.
pensavo tanto che mi faceva male la gola,
perché è li che si fermano le tristezze".
stefano benni, la grammatica di dio
 
 
mi sto abituando al poliestere. forse, o forse no. ad ogni modo io non desidero abituarmici, o forse un po’ sì, non lo so. è che questa non è certo una buona notizia, ché alla merda uno non si dovrebbe mai abituare e il poliestere e l’acrilico sono robe schifosissime, che fanno molto male.
mi scoppiò all’improvviso, così, un giorno. era tipo uno tsunami, che cominciò a deturpare la mia pelle innocente dalle cosce e dal collo. un rossore inibito, che voleva crescere presto e diventare adulto.
avevo ventiquattro anni, ero quindi piuttosto fatta, ma la mia pelle era ancora acerba e stava maturando così, a forza di vampate incandescenti.  
intanto io mi grattavo. sentivo un fuoco che mi attraversava su e giù per i vasi sanguigni e intimoriva ancora di più la mia pelle tanto emotiva. mi riempivo di crema, eppure non facevo in tempo a stenderla che già il prurito tornava ad ossessionarmi le dita.
una volta mi ricoverarono. i dermatologi sono una razza strana, sembrano come degli alieni arretrati alla preistoria, genti con le sembianze moderne e una mente da trogloditi, piene di bui e di non lo sappiamo.
entravano al mattino ed erano tipo sei, sette, impettiti in quei camici bianchi e occhialuti fino ai capelli. mi facevano alzare in piedi, togliere il mio pigiama grigio e cominciavano a squadrare la geografia dei disegni che avevo sul corpo. segnavano appunti sui loro taccuini asettici e se ne andavano, dopo essersi consultati con termini un po’ del cazzo.
per me nessuna attenzione. per me non sapevano usare alcuna parola premurosa, che potesse restituirmi, anche solo per pochi istanti, l’angolo d’un sorriso, che sembrava perso per sempre.  
un’altra volta mi portarono in un laboratorio, per farmi una biopsia. mi spogliai e i due dermatologi davanti a me sgranarono gli occhi, come se avessero visto un non so che. meraviglioso!, esclamò uno dei due.
rabbrividii. disse proprio meraviglioso, mentre io avrei voluto agganciargli la faccia per sbattergliela contro la luce al neon, che regnava in alto a noi come un sole nero. maledetto, maledetti! pensai con gli occhi umidi.
i dermatologi sono così, esseri senza sentimenti e pieni di merda da analizzare in vitro. genti che provano un orgasmo, nel momento in cui riescono a dare un nome al disegno che hai sulla pelle. e il disegno è tuo, la pelle pure, invece la trattano come fosse roba loro.
ad un tratto uno dei due disse che andavano fotografate, quelle bolle, che andava costruita una letteratura, in grado di risolvere i problemi sulle pelli di tutti gli esseri viventi. mi si fermò il cuore per qualche attimo. ma era già tardi e non mi uscirono le parole per oppormi e gridargli NO!
restai in silenzio, mentre loro scattavano delle foto su alcuni quadrati della mia pelle. le lacrime uscirono da sole, non ce la feci a tenerle per me. mi sentii umiliata. loro, due medici, mi stavano umiliando.
un’altra volta ancora non volevo più tornarci in quel posto funesto, con quei vampiri a caccia di sorsi di soddisfazione. fu la mia amica ad impormelo, anche se ero certa che non servisse e che stessimo facendo l’ennesima cazzata. perché mai tornarci? mi avrebbero come al solito infagottato la pelle di cortisone e rilasciato con la solita etichetta: dermatite atopica. (idioti).
ci andammo lo stesso. davanti all’ennesimo dermatologo, piena di stizza e protetta alle spalle dalla mia amica, mi spogliai. pianse lei, questa volta. in fondo mi ero assuefatta alle bolle e una più o una meno o una gigante o una più piccola o una moltiplicata ed elevata a infinito non facevano più differenza ai miei occhi stanchi.
capii che mi aspettava un altro ricovero. il terzo. inutile. tormentato. ingiusto. odioso. e intanto mi sentivo di parlare una lingua inascoltata e incompresa da tutti, anche da chi mi stava accanto in silenzio e m’amava.
un’altra volta ancora era una donna. mi guardò amorevole (mai nessun medico fino ad allora lo aveva ancora fatto) e mi chiese di sedermi e di raccontarle cosa fosse accaduto nella mia vita negli ultimi anni. la mia pelle gridava qualcosa che io tacevo, così disse. m’imbottì di cortisone per bocca e, finita la cura di tre settimane, le bolle tornarono più forti di prima.
poi incontrai lui. un’anima eletta tra le anime, un medico ottantenne, che mi prese per mano ed in brevissimo tempo mi spalancò la porta della guarigione. per sempre.
lui è ancora nel mio cuore, dei precedenti non ricordo neanche la puzza. mi insegnò che la medicina è una statistica, non una scienza esatta, e sperimentai proprio sulla mia pelle che la medicina alternativa fosse un’alternativa salvifica e che quella tradizionale avesse gli stessi limiti che pongono le religioni nelle vite umane (le religioni e i loro dogmi, non le preghiere, dico).
la mia pelle ha una coscienza a sé, rispetto a me. lei sa che il suo compito è di separarmi dal mondo. lei fa da confine, da zona liminare, da interstizio, da pellicola, da protezione e lo fa emozionandosi profondamente. e oggi gode di ottima salute.
mi sto abituando al poliestere. forse, o forse no. ad ogni modo io faccio finta di niente.

bi
 
 
[ph. rebecca cairns, reality]
 
 

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