giovedì 13 febbraio 2014

mai dire pranzetto


mai dire pranzetto, se non arrivo umidiccia e con la sciarpa ciondoloni (e fuori ci sono appena diciassette gradi il dodici febbraio), all’una e dieci e al solito posto, dove loro due sono lì, sorridenti, ad aspettarmi. e si alzano per baciarmi tutta e stringermi ai loro dolcissimi spiriti e ai maglioni scuri e ai colli scoperti.
mai dire pranzetto se non mi siedo piena di fretta e già con il menù alla mano, per scegliere entro poco il mio pranzo veloce con loro.
sono bellissime, come sempre. ci versiamo l’acqua liscia dalla brocca trasparente e cominciamo subito ad incrociare i nostri aggiornamenti sulla vita trascorsa negli ultimi giorni che ci hanno diviso.
a. è stata a vedere timi a teatro, quel gran pezzo di scrittore e attore così tanto anti-eroe sturm und drang-hiano (mi si passi questa licenza piuttosto schifosa, ma tant’è) e lo ha pure aspettato fuori dopo lo spettacolo, solo per annusarlo e vedere la sua aura che scia disegnasse nell’etere. lilla, sfumata di argento, così ha detto.
r. ha il colon infiammato e bisticcia con il menù ricco di premi e cotillons, di cui il suo palato non potrà beneficiare in alcun modo, manco annusando i piatti delle altre, che le sfileranno fieri sotto le narici.
- prendo la pasta in bianco, me la puoi far fare in bianco? con un filo d’olio e basta. ah, niente parmigiano, né pepe, ché proprio non posso… e dopo una verdura. lessa. verde, eh? a foglia larga, che hai?
è perplesso, il cameriere, di quelle facce perplesse viste e riviste, che si ripropongono ad ogni pranzo e ad ogni cena e ad ogni roba che si mangia e che si deve per forza ordinare, perché non stiamo a casa.
- va bene la bieta?
sgrano gli occhi. no, dico io, la bieta non aiuta la colite, anzi… deflagra negli intestini di tutti gli esseri non alieni, quindi m’aspetto un secco no dei suoi.
- si, dai, lessa e senza condimento. anzi il limone sì, il resto no.
perplesso scrive un papiro tipo tema nel suo taccuino, che mi fa una tenerezza paurosa. va be’.
a. prende la pasta al pesto e basta, ché è braverrima e rispetta meticolosamente la regola del non-si-mischiano-carboidrati-e-proteine.
quand’è il mio turno mi sento lievemente a disagio. mi caratterizza una fame famelica, da natale trapassato remoto, di quelle che la sera mi fustigherei con due gatti a nove code (che fa diciotto, quindi una bella tortura), e davanti a quel menù colorato, in fila per sei con tutte robe da urlo in letto di fantasticherei tremende, bene: mi prende un colpo.
scelgo due cose, ché una proprio no (mi rifiuto!) e continuiamo a chiacchierare, mentre perplesso si ritira in cucina con un bignami di robe nostre da pranzetto.
torniamo a timi e alla sua recitazione celestiale, alle sue parole nel libro che ha scritto e al suo fare così umano, sì, così tanto umano, alla sua bellezza, che obiettivamente straripa ovunque, al suo sguardo che genere plurimi campi magnetici ed al suo prossimo show a teatro.
torniamo alla colite e alle maledizioni che l’accompagnano perpetue, alle paste bianche e malate e alle verdure no, mai più, almeno fino a venerdì e al tacchino per forza proprio.
torniamo al mio maglione di lana che pesa una settantina di chili e che ho deciso di mettere proprio il dodici febbraio, perché è inverno, pure se fuori dice che ci sono diciassette gradi e un sole tiepido ed insicuro.
arriva la pasta. quella malata e quella in salute verde pesto. e la mia vellutata di zucca con lo speck e i crostini di pane. mi sembrava il paradiso, cioè se esistesse questo cavolo di paradiso, avrebbe di certo il pranzetto con le mie amiche del cuore e la vellutata di zucca.
torna perplesso, con la sua faccetta da bravo ragazzo piena di sorriso, e presenta un piatto con una mozzarella in carrozza, larga come una pizza margherita.
- questa era per…?
chiede.
- mia!
rispondo come se poi la mozzarella si trasformi in zucca e scappi via entro mezzanotte…
la fame famelica, no? l’avevo detto.
ridono. a. e r. mi guardano come se non mangiassi dalle guerre puniche e tutto diventa un riso generale, mentre io assalgo il piatto pieno di pranzetto.
torna perplesso.
- e questo era per…?
- no, questo è di nessuno.
eh no, è il mio! è il finocchio con l’arancia, cavolo, l’unica roba degna di essere chiamata cosa-sana tra le mie pietanze barbariche.
è tutto un ridere, questa volta più forte. perché mangio come una famiglia di quattro persone, da sola. perché loro mi amano e si vede da come brillano i loro occhi pieni di luccichini e fulmini benevoli. perché non puoi dire pranzetto se una di noi manca o va via prima. perché io sono una donna fortunata ad avere, oltre alla vellutata di zucca, due anime gentili e piene di immensità nella mia vita.

mai dire pranzetto, se non ci sono le mie amatissime a. e r.

bi


[immagine tratta da internet]

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