venerdì 22 marzo 2013

seduta nello scalino del ristorante di fronte


 


al primo piano ci abita lina, una mora longilinea di quarant’anni circa. perché lo diresti che ne ha quaranta, guardandola muoversi e spostarsi i capelli dietro le orecchie. poi magari ne ha di più, o di meno.
lina sta per carmelina, che suona scomodo e ti porta indietro nel tempo, in un borgo collinare a settecento metri dal livello del mare. lì l’odore del mare e l’aggressività della salsedine sono nulli, mentre il profumo dei camini alle sette e mezzo di sera ti si posa sulla stanchezza del corpo in modo intenso.
lina ha un quadro antico sulla parete del salone, a destra del divano. un regalo di suo nonno, dice. ma non è vero. suo nonno non le ha mai fatto un dono, se non quel cognome detestabile. mica per il suono, ma per il fatto che quella famiglia non sapesse cosa fosse la gratitudine. mai un grazie, per dire, o un sei stato bravissimo, sussurrati con voce amorevole a suo padre. suo padre, il figlio del nonno di carmelina. lina, cioè, ché lei non vuole.
se lo guarda tutte le sere alle sette mezzo quel quadro e si ripete che suo nonno glielo avrebbe regalato senz’altro, se solo avesse saputo quanto lei ne avesse avuto così tanto desiderio. è solo per quello che non lo fece, solo per non averlo mai saputo. ne è certa.

al secondo piano c’è roberto. alto, altissimo. un metro e novanta e qualcosa. capelli radi sulla fronte, castani chiari. una fronte ampia che tradisce intelligenza, poco sfruttata in verità. perché? per via di sua moglie. e di quella dannata abitudine di certi uomini di scegliersela sempre troppo simile alla madre. infatti non sa cucinare.
è una che si gode il divano in penombra, così da riuscire a guardare fuori senza mai essere vista. poi si alza di scatto e va di là a mettere su un sugo per la cena. la cucina ha la luce accesa tutte le sere alle sette e mezzo. lascia cadere distratta un goccio d’olio e accende. poi ci corica sopra la passata. tutto su una padella. dico io, usa una pentola più alta! gli urla roberto. e giù si sente, per via delle persiane lasciate socchiuse. poi ci butta un po’ di olive nere e dopo un po’ spegne.
quello per lei è il sugo migliore che riesca a creare. e lui s’arrabbia, andandosene e sbattendo la porta. come faceva con sua madre, quando sbadata bruciava il sugo di carne nel pentolino. non ti ama una che ti brucia la cena, pensava lui. non ti ama.

al terzo piano ci vive giorgia. la musica è sempre alta, le luci spalancate al mondo fuori. ci farebbe entrare tutti in casa sua. tutti. pure la signora in abito nero che chiede l’elemosina all’angolo del palazzo. quella che nessuno saluta, ma giorgia sì.
poi un giorno la signora le racconta che una volta era un’insegnante. di lettere e filosofia. e come mai ora sei buttata in strada, le chiese un giorno giorgia, con la tristezza in bocca. perché la mia famiglia non m’ama, le disse. era tutto lì il problema, non era amata.
la strada la accolse e da allora girò per un bel pezzo, nella speranza di trovare un angolo e disegnarci sopra la sua solitudine. fu così che trovò quello e ci si fermò. e ancora è lì, sotto casa di giorgia.
giorgia a casa balla, si muove veloce fino a tarda sera, riordina mentre fa altre tre cose. è libera il pomeriggio, non lavora. solo la mattina.
una sera ha fatto del polpettone. una roba troppo grossa per mangiarsela da sola, così è scesa giù verso le sette e mezzo. all’angolo ha trovato la solita signora in nero, silenziosa e con lo sguardo basso e solo. tieni, mangia un po’ del polpettone che ho preparato per me, le dice. così mi dici com’è, ché a forza di cucinarmi da sola ho perso l’abitudine di sentirmi dire che potrei aggiungerci un tocco di qualcos’altro.
i chiodi di garofano, le risponde di aggiungerci quelli. io ce li mettevo sempre, pure se nessuno pareva accorgersene. anche se è già buonissimo così.

al quarto sembra che ci sia una casa, ma in realtà c’è uno studio. ci viene sempre uno distratto che non saluta mai. sembra sicuro di sé. sembra uno che sa parlare bene, ma che non ha mai ascoltato nessuno. o quasi. dico sembra, perché io non ci ho mai scambiato una conversazione. solo salve gli dico, quando lo incrocio qualche volta alle sette e mezzo. lui esce dal portone e lo apre con forza fino in fondo, così non deve richiuderlo lui, ma si chiude da sé per la forza di ritorno con cui l’ha aperto.
e allora gli dico salve, perché lo dico alle persone che non mi piacciono.

dove abito io? io non abito lì. ci vado perché il palazzo è bellissimo. ha le persiane e le finestre altissime. poi un albero secolare ci si tuffa un po’ addosso e mi fa pensare di non essere in città. e i riflessi del lampione, pure quelli mi piacciono.
mi fermo lì di fronte, seduta nello scalino del ristorante. e ci resto per un po’. alle sette e mezzo, ché c’è la luce giusta. accogliente, un po’ gialla. così resto seduta nello scalino del ristorante di fronte.

bi
 
[la foto è mia]

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