mercoledì 27 marzo 2013

è una vita che annuso la mia vita

è una vita che colleziono odori e li coltivo in testa come ricordi.
quello dell’androne del palazzo di mia zia sulla tiburtina, per esempio.
un luogo semibuio, con un lungo, lunghissimo corridoio che poi svoltava a sinistra.
a pensarci bene ora, non era poi così lungo, ma quando sei piccola gli spazi si dilatano tutti, per poi restringersi quando smetti di avere gli anni con una cifra sola.
ci si accedeva con un portone enorme, grandissimo e altissimo.
tutto issimo, sì, non sto esagerando.
fatto di vetro, ma protetto da un gigantesco intarsio in ferro, che lo ricopriva per intero, senza celare completamente la visione del dentro.
appena lo aprivo, un forte odore di gomma misto a legno mi rapiva le narici e mi strizzava gli occhi nocciola.
e correvo ad infilarmi dentro l’ascensore, per riprendermi il mio naso.
ma niente.
anche lì dentro quell’aroma aggressivo e quasi feroce colava su di me, negandomi gli odori miei.
oppure quello della mimosa.
ogni volta che mi porto quelle palline gialle alle narici, chiudo gli occhi e torno lì: nel grande giardino della mia scuola, pieno di prati, di terra, di ghiaia, di voci innocenti.
un cortile nascosto tra le mura, in cui si affacciavano mille e mille occhi di bambini urlanti e curiosi, pronti a scattare alla musica monocorde della campanella.
sul fondo, dando le spalle all’entrata principale e guardando avanti, c’era un grosso albero di mimosa.
alto, folto.
il suo odore sanciva da sempre l’arrivo dei giorni assolati, in cui a ricreazione si usciva a correre fuori, con addosso solo il grembiule.
il mio era bianco, come quello di tutte le ragazzine, con un grosso fiocco azzurro scuro, quasi blu.
un coso da annodare, non già fatto e con l’elastico come quello di molte mie compagne.
loro avevano tutte le cose più comode: il fiocco che non si sfioccava e restava lì immobile e bell’e fatto, nonostante le capriole e le corse con la cartella, e pure i polsini del grembiule con l’elastico, invece dei bottoni.
odiavo i bottoni e le maniche delle magliette che, sotto il grembiule, si spostavano impunemente, creandomi un fastidio tremendo. 
poi l’odore del ciambellone.
fatto con la buccia di limone, grattata ed impastata con tutto il resto.
lo faceva per me nonna angela e a me, prim’ancora che un dolce, sembrava una scultura perfetta ed imperiosa. 
lo mangiavo ancora caldo, proprio appena sfornato, da farmi venire il mal di pancia, che però in verità non mi pare che mi fosse mai venuto.
ma lei diceva così, che avrei dovuto aspettare un’ora.
lo preparava in cucina, mentre io nel salone giocavo in piedi sul davanzale della finestra.
mi ci arrampicavo per guardare fuori e salutare lidia.
solo lei, perché letizia invece non piaceva a mia nonna.
poi ce n’era un altro, quasi il migliore di tutti: il profumo della menta.
anzi, mentuccia.
non era una roba astratta, come sono i profumi, perché quello lo toccavo proprio.
me lo strofinavo pure e mi restava sulla pelle per ore.
era verde, un profumo verde.
quell’essenza sa di corse, di gioie, di giochi, di caramelle donate, di baci, di preghiere, di ginocchia sbucciate, di trattori, di mucche, di montagna, di casa, delle gambe di nonna anna, della ringhiera verde, della sedia impagliata, di vacanze, di pensieri pieni, di musica, d’infanzia, di oltre.
mi basta sentirlo per attraversare luoghi senza tempo, fatti di tante vite e di famiglia.
è una vita che annuso cose e immagino mondi e costruisco ricordi.
è una vita che annuso la mia vita.

bi
 
 
 

[ph. shelby robinson photography]

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