mercoledì 24 aprile 2013

“mamma-è-bello”

le dieci regole d’oro per fare la mamma fica nel duemilatredici.

a) tuo figlio ha sempre ragione
anche quando l’insegnante ti dice che ha spinto il compagno contro lo spigolo della cattedra e gli ha fatto uscire fiotti di sangue grossi come la fontana delle novantanove cannelle.
anche quando non ha capito il capitolo della seconda guerra punica e dice che la colpa è dell’insegnante, se non sa dirti se annibale sia romano o cartaginese. perché lui (tuo figlio) è digital native e si sente cittadino del mondo e il mondo comprende sia roma che cartagine. quindi dice che tu gli poni domande inutili.
anche quando ripete una parolaccia, già, una parolaccia bruttissima che comincia con la c e la ripete due, tre volte e tu lo guardi inorridita e ti chiedi sommessamente come mai, visto che tu la dici sempre a voce bassissima, tipo sibilo. è che dimentichi che a lui non sfugge niente di quello che dici e che fai. e ti imita, inesorabilmente e tuo malgrado.

b) se non organizzi le feste ai gonfiabili non sei nessuno
perché i gonfiabili sono al coperto e pure se piove sei tranquillissima che la festa non andrà rovinata.
perché i gonfiabili sono enormi e colorati e vanno di moda che proprio non puoi dire alle mamme “venite al parco alle cinque, che io porto coca cola e torta!” perché ti guarderebbero come fossi un’aliena e saresti un’anonima stravagante e dissociata da emarginare subito manco avessi la faccia viola sfumata di verde e puzzassi di naftalina.
ci vuole una certa organizzazione, ci vuole. se no non sei nessuno.

c) le scarpe da ginnastica si comprano e si fanno regalare solo di marca
mica come ai tempi nostri, in cui alle elementari mettevamo le scarpe blu con i buchi.
(che meraviglia le scarpe con i buchi, di una bellezza che i figli digital natives non potranno mai assaporare).
ora solo mini sneakers, scherzi? mini scarpe, maxi brand. di super marca. senza lacci e con lo strappo, così non si sciolgono e sono praticissime. capito? occhei.

d) tuo figlio è sempre un fenomeno
a calcio, dico. o a rugby, pallacanestro, pallavolo e giochi di squadra così.
la squadra? fa da cornice.
lui? è il migliore, the hero, il più importante, il più intelligente, il più figlio, il più e sto.
c’è solo lui e nessun altro. se no gli ferisci l’ego, intesi? meglio gonfiarglielo, tanto in futuro quell’ego se lo smazzerà la sua dolcerrima metà, mica più tu.

e) alle nove tutti a letto un cavolo
dimenticati i bei sonni alle nove di sera dopo una solitaria doccia tiepida silenziosa e profumata di muschio bianco e biancospino…
no! i figli di oggi alle nove sono sveglissimi e aspettano la mezzanotte come a capodanno. tutti i giorni. rassegnati.

f) al mcdonalds una volta a settimana
se no, pure lì, non sei nessuno.
le schifezze una volta a settimana sono salutari. i surrogati di patata fritta, che di patata hanno solo forma e colore, una volta a settimana sono salutari.
pure per te che stai affannosamente a dieta per sgonfiare la pancia dei quarant’anni a fatica… che fai, vai lì e ti mangi un’insalata? ti prego, no.

g) “scarta-la-carta!”
cantato. è un inno. capito quale?
dunque, tuo figlio deve scartare i millesettecentocinquadue regali che ha ricevuto per il suo compleanno e non lo fa, educatamente, quando il regalo gli viene portato.
eh no, mica lo puoi disturbare mentre cerca di sgonfiare i gonfiabili come un homo di neanderthal
tutti insieme si scartano. tutti. e tutti in coro gli cantano: “scarta-la-carta! scarta-la-carta! scarta-la-carta!” (eccetera... ché a me, scusami tanto, viene la dermatite).

h) la festa a un anno non è una scelta
non puoi scegliere se sì o se no: la festa a un anno è un obbligo istituzionale.
che tuo figlio lo vedi che si dissocia, non ci capisce niente, si guarda tutta quella gente estranea attorno come fosse una folla indistinta di invasati.
tutti che ululano, gli dicono cose con le vocine del cavolo e cantano “tanti auguri a teee!”, mentre lui rischia di tuffarsi sopra la panna della torta e di bruciarsi con le candeline…
la festa a un anno si fa per legge.

i) devi vivere in funzione degli appuntamenti settimanali di tuo figlio
non avrai altri appuntamenti al di fuori di quelli di tuo figlio.
che va a scuola, esce da scuola, va a fare uno sport nei giorni dispari, a lezione di chitarra in quelli pari, a catechismo due, tre, quattro anni di seguito, si ammala di venerdì, deve presenziare alle feste degli amichetti il sabato, andare a messa la domenica.
e tu? pazienza, socializzi in giro con altre madri sciupate come te.

l) la cacca di tuo figlio è una sostanza speciale e santa
ché come fa la cacca lui, non la fa nessuno.
come fa la pipì lui, nessun altro nel quartiere.
come vomita lui, lasciamo stare: nessuno nella provincia.
come gli viene la varicella a lui, mai nessuno nella storia.
e potrei andare avanti, ma mi fermo per sfinimento.

se sei mamma e non ti riconosci in almeno sei di queste regole d’oro,  non hai la sufficienza.
ma sei senza dubbio un’anima salva.

con tutta la mia solidarietà (più o meno), bi
 
 
 

lunedì 22 aprile 2013

a tempo di gerundio




 
contando i fiori sotto i miei piedi agitati
ascoltando il sordo buio della quiete sotto il peso della coperta cipria
aprendo il ripieno alla luce del sole che scalda a tutto tondo
carezzando le fate del mio giardino che ruotano intorno alla mia aria
lasciando andare la mia storia e quella degli avi miei
dipingendo i ricordi di una breve me bambina ed emozionata
immaginandoti al mio fianco sinistro, poi a quello destro
desiderando di restare e non patire più l’assenza
cercando me, trovando noi
scoprendo odori nuovi che ravvivino quelli conosciuti
salendo, scendendo, scendendo, salendo
fotografando le scale turgide di radici
chiamando amici quei bambini che erano ieri
ricordando quando saltavamo e correvamo e scappavamo
origliando la natura mentre cambia colore
dormendo in un altrove che ha un tempo sbiadito
assaporando compagnia e voglia di restare fuori
restando a bocca spalancata e senza fiato
pensando all’oggi come non servisse un domani
aprendo le persiane
chiudendole quando la sera si fa vermiglia
amando la mia me con la tua maglia cucita addosso
aspettando l’auto che sbuchi all’orizzonte della valle verde
perdendo la nullità della vista nello spazio espanso
cogliendo il sottile essere delle cose
contorcendo l’emozione in mezzo alle costole
rompendo ogni legno fradicio e ogni indugio
scoprendo che non è tardi mai ed è presto sempre
sorprendendomi per la forza dell’altezza
infatuandomi dell'agire continuo del gerundio 
contemplando il suo fluire che mai sembra smorzarsi
perdendomi nel suo suono aspro, quasi dolce
difendendo la solitudine del gerundio ed il suo elegante reggersi senza l’indicativo, seppure nessuno sembri accorgersene.
 
bi

[ph. mia]

mercoledì 17 aprile 2013

il manifesto della non sopportazione

non sopporto il cane di quella di sopra a quella sopra di me che abbaia tutte le notti in cui resta sola in casa, perché ce la lasciano e lei certamente li chiama e strilla loro che lei non è un peluche ma respira sul serio ed emette anidride carbonica ad ogni sbuffo.
non sopporto i suoi padroni (padroni di che, poi) che la lasciano da sola in casa anziché portarla con sé ché mica è un settimino o un comò o una cosa così.
non sopporto questi chili di troppo che mi abbracciano il girovita in una morsa mortale e mi stanno attaccati come delle sanguisughe assetate di sangue zero erre acca positivo, sì proprio il mio.
non sopporto di stare a dieta, di non mangiare la pasta, tanto che mi sogno la carbonara e il salame abruzzese schiacciato e pieno di pepe, di scartare questi yogurt insulsi ogni mattina che mi danno il contentino e mi rendono burbera e iraconda oversize e puntualmente mi schizzano i polsini delle maglie.
non sopporto più i polsini delle maglie e desidero sbracciarmi senza avere i brividi, se non per l’emozione che mi corre sulla schiena e mi termina sulla punta delle dita, per aver ricevuto un bacio posato sulle labbra e anche uno come si deve con la lingua.
non sopporto chi parla ed esprime opinioni su tutto e tutti, sì esattamente come faccio io ogni santo giorno, che piova tiri vento o ci sia il sole io ho sempre un’opinione bell’e pronta (pensa che palle e che barba e che noia).
non sopporto chi non ha opinioni, chi non si schiera, chi non combatte per le cose schifose che tutti i giorni ci avvelenano un passo dopo l’altro che affiliamo, chi dice sempre sì, chi dice sempre no, chi non ammette il forse, vedremo, non lo so se mi va e punto e virgola, invece che punto.
non sopporto l’acqua ferrosa del rubinetto, sempre uguale, incolore, che nasconde insidie e veleni e sostanze psicotrope che certamente minano alla mia benevolenza, che nel frattempo è tornata in letargo perché s’è sbagliata.
non sopporto di accollarmi le confezioni d’acqua che ti pare, sempre di marche diverse perché così eviti che ti faccia male e che ti vengano i calcoli, ma tanto ti fottono lo stesso, perché quella roba è imbottigliata da chissà quando e proviene da chissà dove eccetera.
non sopporto chi alza la voce e invade spazi che non sono suoi e si impone con prepotenza laddove non sa imporsi con gentilezza.
non sopporto chi abbassa la voce e ti costringe a chiederti che ti succeda alle orecchie e semmai sia diventata sorda o se sia poi così importante avere dei segreti che poi ti dimentichi che sono segreti e li dici ugualmente.
non sopporto la pioggia che mo torna e io già mi sto prefigurando di tirare giù tutte le parolacce che conosco perché sabato e domenica dice che è brutto, dice.
non sopporto il sole visto dalle finestre dell’ufficio perché rosico, sì, rosico che lui stia in un posto che si chiami fuori, mentre io stia in un posto che si chiami dentro e che questi due posti non coincidano manco un po’.
non sopporto nessuno né me né lavorare né studiare né uscire alle sette e quaranta tutte le mattine né prendere il cappuccino né rinunciare al latte né vedermi tonda né avere le unghie indebolite né mangiare la frutta né sorridere né restare seria né oziare né ammazzarmi di lavoro né le maglie strette né quelle corte né la senape né chi non risponde a un saluto né chi ti parla del più e del per né chi non risponde ad una email né chi pretende che tu ci sia senza chiedersi dove se no saresti né chi ti succhia l’energia perché ne è povero né chi ti esaspera con i consigli non richiesti né chi parla poco né chi parla troppo né chi parla di politica né chi si riempie la bocca di quello che fa né dipendere dai soldi né chi non ascolta né chi non ti dice le cose come stanno.
non sopporto di sopportare!
siamo tutti indistintamente avvisati, capito bi?
avete ragione tutti ma io pure quindi abbiamo (ragione tutti).

firmato bi
 
 
 
[immagine tratta da internet]
 

lunedì 15 aprile 2013

i fiori vi somigliano

mia mamma per esempio è un ciclamino.
piena di fiori rosa fucsia aperti e semichiusi,
pronti a sbocciare al mattino presto insieme all'aba.
cresce selvatica nei boschi umidi e ombrosi,
si nutre di acqua e natura,
di parole amorevoli ed abbracci stretti.
i fiori sono carichi di pensieri,
che la piegano verso il basso.
lei è proprio così: volge lo sguardo verso i piedi.
non ti guarda le scarpe o le radici,
è solo carica di idee e propositi,
che diventano subito mani piene di storie.
è un po’ autunnale,
un po’ invernale,
un po’ primaverile.
soffre d’estate,
ma da giovane non lo sapeva ancora.
ora che è matura soffre.
soffre ma non lo dice.
soffre perché ora è consapevole di essere ciclamino.

mio papà è un tulipano.
viola scuro da giovane,
rosa chiaro e sfumato da grande.
sboccia di fronte allo sguardo incredulo di pochi eletti.
prima soffre in silenzio,
a lungo e in solitudine.
soffre per aprirsi,
perché non sa se dentro la terra ci hai messo amore e pace,
una voce che non si alza,
una carezza lieve e il sottofondo di un’aria di bach.
servono quelli per farlo fiorire e poco di più.
soffre pure chi lo pianta,
perché non sa se potrà mai annusarlo,
stringerlo a sé e guardarlo negli occhi.
ma se sboccia,
sboccerà tutti gli anni a seguire,
perché avrà finalmente capito che un tulipano è come un re.
e lui è proprio tulipano.

è per questo che amo i fiori.
perché somigliano a loro.

bi


 
 
 
[ph. fiori di mandorlo, abruzzo]

giovedì 11 aprile 2013

portami a cantare





- partiamo poco dopo le sei, metti che troviamo traffico.
quando una parla, deve snocciolare le parole con parsimonia e comunque con grande attenzione, ché infatti poi le parole s’avverano in fatti. ci ritroviamo dunque in mezzo ad un fiume grigiastro di macchine inferocite, sotto una pioggia pazzerella di marzo.
il concerto è alle nove, quindi ce n’è di tempo, eccome! ci rassegniamo alla fila, solo dopo aver tentato un’inversione di marcia e una furbata, tagliando per le campagne.
ascoltiamo musica un po’ così e parliamo delle nostre stregonerie e stranezze solite. e intanto ci ritroviamo sul lungotevere, sommerse da altre macchine e sfiorate da motorini impazziti a manca e a destra.
- giro di là per via della conciliazione, no? 
- ma che sei matta? lì andiamo in vaticano! dritta, sempre dritta devi andare. te lo dico io poi, ad un certo punto, di girare a destra.
le rispondo pronta.
sì, perché a natale le avevo fatto un regalo fantastico: due biglietti in primissima fila a sinistra per ascoltare ( con me! e con chi se no?) il nostro amatissimo niccolò fabi. all’auditorium, così era. quindi sempre dritto.
troviamo un parcheggio perfettissimo, che ci guardiamo e diciamo: no, dai, vediamo se ce n’è uno meglio che siamo in anticipo. giriamo che ci rigiriamo, torniamo lì: sì, è perfettissimo proprio.
sono passate da poco le sette e mezzo e ha pure smesso di piovere. ci ritroviamo, certe di non essere viste da anima viva, in un corridoio nascosto dell’auditorium e ci cimentiamo nelle nostre performance solite. tipo che ci sediamo per finta su una panchina di legno e ci facciamo una foto che fa finta di non essere in posa, andiamo nel bagno pieno di marmo bianco e ci guardiamo in fondo agli occhi e lustriamo le labbra, facciamo pipì mentre ci parliamo da un bagno all’altro certe che nessun’altra sia entrata nel frattempo, ci asciughiamo le mani e il ciuffo di capelli sotto il getto d’aria calda e cose così.
ah, pure l’aperitivo, ché tanto è presto. alcolico, sì. con olive e patatine, mentre buttiamo distrattamente lo sguardo in giro.
- ah bi, ma com’è che sono tutti vestiti eleganti? mica verranno tutti a vedere niccolò fabi…
- ma no! questi andranno in uno di quei concerti di musica da camera, ti puoi mettere pure i tacchi dodici per andare a cantare e ad applaudire fabi? figurati…
ebbene, usciamo e ci leggiamo pure il cartellone dei programmi di marzo e aprile. e si fanno le otto e mezza passate pure.
- dai, incamminiamoci dai tizi all’entrata. così entriamo in sala con calma.
e questi ce li ritroviamo subito davanti, dopo aver scavalcato un’altra dozzina di donne sui trampoli e uomini in abito scuro.
- hai visto? c’è pure coso, il giornalista.
- ah, sì! pensa te, si ascolta fabi pure lui. o il concerto classico, mi sa.
i due ci guardano divertiti.
- dove dobbiamo andare per vedere il concerto di niccolò fabi?
gli chiedo, sorridente e felice.
- mica lo fanno qui il concerto di niccolò fabi.
e ha quel ghigno di chi lo vede che fremi per entrare e ti burla e si prende gioco della tua ingenua attesa, quella dei venticinque minuti prima dell’inizio. lo guardo divertita e gli dico una cosa tipo sì, infatti e rido ancora.
- è all’altro auditorium. in via della conciliazione. sbrigatevi, è tardissimo!   
divento sorda per qualche istante. tutto intorno a me gira vorticosamente e m’avvolge e le orecchie mi si tappano che non sento niente e vedo appannato e ro pure la vedo appannata mentre scappiamo furiose mentre lei ride come una pazza.
ero furibonda. con me stessa. che manco un dubbio m’era balenato per la testa. e avevo solo desiderio di dire tantissimi vaffanculo tutti in fila gridando all’aperto sotto le gocce d’acqua che esili avevano ripreso a cadere.
era tardi anzi tardissimo e i semafori poi che te lo dico a fare e lei rideva come una scema e sembrava divertirsi come mai mentre io ero pietrificata dall’ansia sulla bocca dello stomaco salita fino in gola. così mi sentivo. e ad ogni semaforo era una parolaccia, mi mettevo il viso tra le mani e gliele premevo contro, imprecavo ad ogni rosso e ad ogni lento cimelio che ci precedeva nella nostra marcia furibonda verso il vaticano. sì, il vaticano. dove aveva detto lei, ro, quando io le avevo appunto risposto… ma no! e poi eccetera.
alle nove spaccate, manco un minuto in più, eravamo montate su un marciapiede delle mura per lasciarci abbandonata la macchina. incivilmente, lo so. e siamo corse dentro, piene di cuore in gola e fatica manco avessimo trasferito noi tutta la strumentazione per il concerto dall’uno all’altro auditorium.
il concerto ci ha sturbato e ci ha regalato tre ore in un altro mondo meraviglioso. ve ne dono un pezzo, della canzone (molto nostra) gridata con le lacrime in viso in prima fila, sedute sul bordo della sedia, il cui testo è scritto in penna blu sulla busta del regalo di natale della mia anima amata… ro.



bi



[immagine tratta da il design delle idee, luna park]

martedì 9 aprile 2013

i panni stesi fuori





mi piacciono moltissimo i panni stesi fuori.
prendi la casa di quella del primo piano, ad esempio. è sempre piena di voci e la luce della tivù esce fino ad illuminare il balcone. le tende sono color tortora e lei le sposta con leggerezza e pazienza. è mora e sottile e suo marito la aiuta spesso in casa.
è lui che esce fuori a stendere i panni. in genere di sera, con il buio della lavatrice fatta dopo il lavoro. i bambini giocano vicino alla finestra lunga e corrono intorno al tavolo bianco. apre la finestra, facendola scorrere, mentre sorregge una grossa bacinella gialla col solo braccio destro. di fare piano, dice loro mentre la spalanca, che corrono e corrono e paiono instancabili.
i fili su cui stende i panni sono lunghi e attraversano tutto il balcone. così, da destra a sinistra, dall’inizio alla fine. non li mette in ordine, come farebbe mia madre. lei sostiene che abbiano un verso, i panni stesi. una direzione, un posto ben preciso. lui invece li lascia in ordine sparso e li sistema morbidi, rilassati.
ci sono asciugamani dai colori etnici e lenzuola a sacco di un arancio piuttosto acceso. poi una fila di vestitini e canotte e pantaloni e camicie di bimbo. sono dei due figli maschi, ancora piccoli.
il vento li agita un po’ e li fa danzare liberi, dopo che questi hanno lavorato a lungo su quei corpicini sudati. dei figli, dico, che corrono e sudano e si buttano per terra e strusciano le ginocchia sul pavimento velato di vita casalinga e mangiano a tavola seduti su schienali più alti di loro con posate da adulti che colano cibo sulle maglie grigie e blu.
vivono una vita difficile i panni, che quando li stendi si distendono e chiudono gli occhi per qualche ora. il vento li culla, li asciuga, li coccola. mentre loro sognano. sognano di non avere quelle mollette colorate a tenerli legati e sognano di volare, pure. sotto un cielo familiare, sempre lo stesso per lunghi periodi.
il buio serale definisce alcune forme, altre invece le lascia solo immaginare. capisci che c’è anche una tuta lì stesa, più lunga di quei vestitini. è scura e ampia, forse è di sua moglie. la mora, sì, del piano primo.
poi ci sono quelli del secondo. si vede che non si fidano, perché li stendono dentro. sempre fuori, nel balcone, ma su fili appesi a riparo sotto la tettoia del terrazzo di quelli del terzo, per capirci. se si fidassero, infatti, li stenderebbero come quelli del primo: a testa in giù verso il mondo.
sono in due, moglie e marito. stendono le cose a tema: tutte le cose di casa, tipo strofinacci insieme ad asciugamani insieme agli accappatoi, e a parte i vestiti. quando fanno la lavatrice dei vestiti, lavano solo quelli e li espongono come opere d’arte, ben distesi e stirati.
lui è un maniaco della precisione, si vede. stende i panni abbinando i colori delle mollette alle maglie. una questione complicatissima che non so approfondire, perché mi manca questa sensibilità estetica. mi fido del suo gusto ed è giusto che egli l’assecondi.
i loro panni li vedo di giorno, perché di notte scompaiono. se ne vanno di sicuro in qualche luogo sperduto della casa, ben ripiegati in riflessione su se stessi. ordinati. su una sedia, immagino. magari ai piedi del letto.
ecco, mi piacciono terribilmente i panni stesi fuori. mi piace immaginare la loro vita reificata e la vita di chi li gestisce e li tiene a posto. e la vita di chi li guarda e li osserva e che in loro ci trova la bellezza di cose che, quando le vedi, le scruti curiosa e le ammiri e sai che cose non sono.

bi
 
[disegno dell'artista nicoletta ceccoli]

mercoledì 3 aprile 2013

sei una meteoropatica se...

sei una meteoropatica se ti svegli la mattina lentamente, carica di un silenzioso buonumore, e non vedi l’ora di spalancare la finestra e di vedere se è già arrivato il merlo in balcone...
e invece no!
spegni il sorriso interiore non appena apri la finestra e vedi che piove e sembra già sera, non mattina, tanto che fa più luce il chiarore della lampadina maledettamente vecchia che quella foschia grigiastra e sudicia e rumorosa.
purifica, per carità.
lava l’aria, per carità.
nutre la terra, per carità.
è vitale, per carità.
ma al quarto giorno ti girano vorticosamente già per il solo fatto che non ricordi più di quale gradazione di colore sia la bellezza del cielo limpido.
e sbraiti.

sei una meteoropatica se tieni l’ombrello fisso in macchina, nella tasca laterale dello sportello sinistro, tutto bello infiocchettato e incapsulato e nuovo di pacca.
che è utilissimo, perché metti caso che tu sia lontana da casa e all'improvviso becchi una grandinata, bene: tu sei prontissima e lo tiri fuori, come un coniglio bianchissimo dal cilindro.
e invece no!
è mattina e sei a casa e devi andare a lavoro e la macchina è lontana molto lontana ché la sera prima il parcheggio non c’era manco a disegnarlo con le strisce adesive bianche.
quindi esci incappucciata, sì, ma non basta.
e inveisci contro quelli della setta delle previsioni del tempo, che la sera prima lo avevano dannatamente predetto...
ma tu no!
non li hai ascoltati, perché sei ottimista e vedi sempre il bicchiere pieno per metà e dici va bene, che fa, semmai l’ombrello potrebbe servire domani.
perché sì, loro sono una setta satanica e portano iella marcia.
e sbraiti.

sei una meteoropatica se cammini con lo sguardo inclinato verso i piedi, perché sei triste e malinconica e ti viene da piangere e non ti capisci e non ti senti compresa e pensi e ripensi e strapensi e comunque non sai perché tutto queste robe così.
ad ogni modo, cammini, con lo sguardo basso, e all’improvviso sei punta da un odore intenso di fiori freschi e bagnati, che ti invade le narici e ti arriva in testa e s’infila lì, dritto nell’angolo dei ricordi.
e mica pensi ai prati in primavera inumiditi dalla pioggia sotto una luce timida di un sole nascosto che si cela a cercare la sua amata luna verso l’ora del crepuscolo…
eh no!
pensi subito di camminare in un cimitero.
cupo, solo, tetro, quasi buio.
e sei cupa, sola, tetra, quasi buia.
e pensi che i ricordi alle volte siano stronzi, più stronzi di quella pioggia beffarda di marzo e d’aprile che bagna i fiori e tu ne senti l’odore e pensi al cimitero di prima.
e sbraiti.

sei una meteoropatica se ti ripeti ogni ora che passa che il sole è una speranza che è bello che è giallo e il giallo è allegria che scalda che gira intorno alla terra e invece no è un’illusione ché è la terra che gira intorno al sole ma tu ti senti al centro dell’universo e te ne freghi e pensi che sia lui bello e focoso come il sole a girare intorno a te e a nessun’altra.
piove e sbraiti.

sei una meteoropatica se ti rode che manco riesci a dire due parole insieme senza che la terza sia una parolaccia, se hai le occhiaie buie come le nuvole e bagnate come la pioggia fuori, se non sorridi più e formuli desideri sempre più irrealizzabili per infliggerti poi la colpa della loro non realizzazione e cose depressissime così.
eppure, te lo dico io, sì, sì proprio io, la presidentessa del sindacato delle meteoropatiche, don’t worry!
sei bellissima.
simpaticissima.
amatissima.
bravissima.
issima.
sima.
ima.
acchiappa l’ombrello, come fosse una scopa volante, ed esci sotto la pioggia.
le gocce che cadono sono farfalle scese per donarti il loro bacio innamorato.

bi



[creazione di amy sol per surrealismo pop]