martedì 30 luglio 2013

è come se sentissi ogni volta sbocciarmi un albero dentro


senza di me un domani mi svegliai.
il collo inumidito dai percorsi della notte,
la pelle intrisa degli incontri obliati.
senza le mie notti che scorrono rapide,
i giorni non m'apparirebbero così allungati e fiacchi.
(la luce è un respiro che sopravvive per l'ombra dell'apnea).
senza quel domani, non arderei del desiderio d'invertirmi,
di capovolgermi in aria nei tempi, come se nuotassi.
è un perdere senza perdermi.
senza questa forza in me centripeta,  
non mi spingerei nel vortice dell'abisso mio
(m'ingoia, null'altro posso: l'assecondo).
senza allontanarmi dallo stare,
non potrei affondare nel mio essere, né nell'esserci.
è nella natura delle cose mie: il distare.
senza ch'io distassi in questi cieli,
il vicino non sarebbe mai toccato   
e il lontano sarebbe un'eco penosa e invera.
senza queste fitte impervie sotto le costole,
(una ad una, sì che premendo sfiatino di vita)
non abiterei luoghi, da renderli vere concezioni del mondo.
senza questo dire tutto al singolare,
non il plurale potrebbe nascere,
se non storpio e mancante di perenni assenze.
senza quest'uno, anche scolorito, anche stiepidito,
nessun due potrebbe sopravvivere indenne.
è come se sentissi ogni volta sbocciarmi un albero dentro.

bi




[illustration: jeremy enecio artist]

giovedì 25 luglio 2013

Il vestito di Lucy





Ho trovato il vestito di Lucy
ma amo andare sempre scalza
l'ho scorto laggiù
tagliato da una luce verticale
ero seduta e c'erano tutti i miei pensieri che viaggiavano dentro il quadro
partivano e tornavano da viaggi lontani
nell'antico furore
ci ho infilato il mio corpo nuovo dentro
ora posso riempirlo di una femminilità tonda e antica
come le lune dei falò danzanti
non più gazzella dal passo incerto
il cuore e l'anima verdi
le mani ed i piedi troppo grandi

ho trovato il vestito di Lucy

ho sempre i nodi fra i capelli
ma una carne nuova
più calda e materna
una luna ingioiellata di una luminosità più intensa.



Di










mercoledì 24 luglio 2013

granelli di sabbia


alla voce "accadimenti"

la bellezza dei granelli di sabbia sta nel loro bersi i raggi di sole, in quel fenomeno ascetico di succhiarseli dentro fino al midollo e rilasciarli sotto forma di calore per le ossa.
era questo che pensava, mentre se ne stava sul bagnasciuga, sotto il sole infuocato delle due. in disparte, separata, distante dal vociare familiare dei suoi.
assaggiata dai pensieri suoi, intimi e caldi di un luglio prossimo alla luna piena. dal sentimento amaro del non sentirsi compresa, il più delle volte. laddove comprensione sta anche come contrario di esclusione.
esclusa dalle ottusità, dalle tediose liti quotidiane, dai minuti sempre troppo spaccati, dai panni da stirare impilati sulla sedia a capotavola, dal citofono che suona ma non si sa chi sia, dalle scadenze protratte, dalla morsa alla bocca dello stomaco d’infelicità altrui.
giaceva lì come fosse compresa nei minuscoli granelli di sabbia, un tutt’uno dorato e splendente. le voci degli altri allontanate dai suoni del suo respiro intimo, assente di una presenza traslata.
il mare era debole e lo sciabordio una musica lenta eppure potente, costante come il ticchettio di un orologio segna spazio. un orologio segnato da ere e non da ore.
aveva portato le ginocchia piegate verso il grembo e le aveva puntate dritte verso il cielo. azzurro, certo quanto vero era il movimento del suo braccio destro.
aveva disteso il suo telo chiaro direttamente a terra, per sentire la sabbia massaggiarle le spalle e la schiena. il braccio sinistro lungo il corpo, lasciato a riposo. come a spegnere il suo mondo razionale, non appena distesa. la testa era lasciata morbida ad assecondare il vento leggero che le stemperava il calore sulla cute.
amava il mare da sempre, persino da prima. non avrebbe mai potuto abitare in un posto troppo interno. l’acqua era il suo elemento primario, il suo luogo segreto, la sua tana. si sentiva a casa.
si era lasciata sola pure da se stessa, strappata dal corpo accalorato. un piccolo astro che vagava nell’universo del primo pomeriggio era diventata. si aggirava in atmosfere sottili e vacue, colorate di tinte pastello leggermente impallidite.
una madre differente, così si sentiva. di quelle che alzano sì la voce, ma che portano le proprie labbra dirette nel cuore dei propri figli. vedeva una ginestra coltivata in sua figlia e un etereo piccolo principe in suo figlio.
la libertà, quella avrebbero dovuto imparare. e lei sapeva come insegnarla loro, estirpandogliela dalle loro nature differenti e sepolte. 
il vento s’era fatto più intenso e il suo corpo ebbe un sussulto. pensieri lontani le colpirono il centro del cranio accaldato, da farla girare su se stessa.
una scossa quel vento, un scatto che la riportò dove giaceva. lì, proprio. era il vento di ponente, quello che gira col sole. quello che senti tutto il giorno sotto la pianta dei piedi. l’aveva resa più inquieta. cominciò, senza accorgersene, a maneggiare quei granelli con più insistenza e più forza. quasi stizzita ed innervosita da quel ritorno verso di sé. in fondo vagare era nel suo innato essere.
granelli su granelli portati via dal vento, mentre affondava le sue dita lunghe in basso, sotto la sabbia. per ritirarla fuori e rilasciarla libera per l’aria.
- scusa…?
qualcuno stava rompendo la sua quiete solitaria.
- sì?
rispose, un po’ stordita. si sollevò appena sui gomiti, le gambe ancora in grembo. un figuro slanciato e scuro la fissava negli occhi, i capelli portati un po’ lunghi, le orecchie chiuse dentro una musica sconosciuta.
- scusa, non è mia abitudine…
bello, lo era. e corporeo, non percepito o immaginato o sfumato. vero.
- scusa, ma sai… la sabbia, il vento... non lo faccio mai, perdonami.
garbato e con una voce soffice e sfuggente.
- scusa, non lo faccio mai. ma è da un po’ che mi stai ricoprendo di sabbia. che dici, può bastare?

bi
 
 


[foto di klaus ledorf]
 

lunedì 22 luglio 2013

le cose che avevo



 
"non sempre io sono del mio parere"
paul valéry


avevo dei pantaloni a fiori gialli su uno sfondo blu sbiadito, tipo jeans. pantaloni di cotone, sottili e affusolati, con un bottone di metallo e le tasche tagliate strette. i fiori erano tipo delle minuscole margherite con i petali appuntiti, ma ti ci dovevi avvicinare parecchio per distinguerne la forma. gialli accesi, di un giallo sicuro di sé, più di quanto lo fossi io al tempo di me stessa. il blu invece era incerto, non sapeva se essere più azzurro o più blu e restava così: insicuro di sé.  
indossare un pantalone a fiori era come rotolarmi su un prato di velluto e tatuarmelo addosso, senza ammazzare i fiori, né schiacciar loro le teste. erano un messaggio chiaro al mondo: io amo la natura, che non si vede? perché se non si vede, siete voialtri a non capirlo.
avevo un paio di ginocchiere rosse. di quelle da pallavolo, con le quali facevo la riserva, in panchina. ero bassa e la mia elevazione faceva parecchio schifo, ma le prendevo tutte. le battute, le schiacciate. tutte e dico tutte. ma ero bassa e avevo poca elevazione e quindi me ne stavo in panchina, felice e con infilate le mie ginocchiere rosse.
le tenevo basse all'altezza della caviglia mentre camminavo a bordo campo. mi davano un tono, serio e al tempo stesso affidabile. camminavo come una che sapeva tutto della vita e che studiava tutti i giorni fino alle sei. quando le infilavo sul ginocchio, o ne mettevo una sì e una no, era il momento di giocare. ed ero più felice di quanto fossi felice in panchina.
avevo una chitarra classica. un regalo di mio padre, che ci sperava che imparassi a suonare qualche corda di robe sue. quindi un natale andammo in centro con la metro. gli stringevo la mano forte, perché quei posti pieni di gente mi mettevano inquietudine.
come potevi fare a mettere d'accordo tutta quella gente insieme? non potevi farlo e ci credevo allora che ci fossero ladri e scippatori sulla metro, come quelli che avevano strappato la borsa dalle mani di mia zia, scioccandola per settimane.
in centro arrivammo in questo negozio bellissimo, accanto ad uno di vestiti per preti. pieno di strumenti fino al soffitto. di tutte le grandezze e colori, arrampicati su scaffali ordinati o appuntati sulla parete con dei chiodi invisibili. avevo paura che ci crollassero tutti addosso e che mio padre non avesse il tempo di pagare la mia chitarra.
il fatto è che non la seppi suonare mai e tuttora non so come funzionino gli accordi. però quando scrivo mio padre legge tutto. e gli vengono gli occhi lucidi lo stesso, pure se le parole non sono note accordate.
avevo l'enciclopedia degli animali. dodici volumi neri e lisci, con la doppia copertina e una foto gigante e coloratissima al centro. suddivisi tra mammiferi, insetti, uccelli, invertebrati e insieme rettili e anfibi. non mi ero mai resa conto che in fondo i rettili e gli anfibi fossero meno degli invertebrati. e che siamo pieni di mammiferi (quattro volumi, tipo più del trenta percento degli animali esistenti al mondo).
li ho letti tutti e dodici, alcuni più volte negli anni. tipo i cani. le cui pagine ho consumato per quanto le ho leccate e sfogliate. volevo un cane, era ovvio. non un gatto, che non potessi portare con me al guinzaglio e richiamare. un cane vero da portare al giardino, per mostrarlo a chi avesse il cane prim'ancora che ce lo avessi io. per dirgli: vedi? adesso ce l'ho. poi ci trovavo le somiglianze con i cani meticci che giravano sotto casa mia e che io chiamavo col fischio quando scendevo alle quattro. e comparivano, scodinzolando.
oggi ho tre gatte più i neonati e zero cani. segno che nella vita un sacco di volte dici -a- e succede -b-.
avevo due dischi ellepi di heidi. hanno girato talmente tante volte che si sono trasformati in energia universale e non esistono più sotto forma di dischi ellepi.
sapevo a memoria quanti panini heidi avesse portato alla nonna cieca di peter, quante volte fosse salita sul tetto della casa di clara per cercare di scorgere le sue montagne nel grigio di francoforte, come fosse fatto il letto di fieno al piano di sopra della casa del nonno, come si chiamassero tutte le capre (mica solo fiocco di neve, che era facile), come fischiasse il vento in mezzo alle alpi, come piangesse la piccola heidi nei momenti di struggente tristezza, come si stesse senza una mamma e un papà, quali compiti facesse fare la signorina rottermaier e pure tanti altri pezzi.
sono cose che ti segnano per sempre le cose che hai. e, come dico sempre, difficilmente sono solo cose.

bi
 
 
[immagine di mab graves "harlow and the faerie ring", tratta da pop surrealist]

giovedì 18 luglio 2013

Il mondo parla di Radica.menti...

È con una punta di orgoglio ed un nodo stretto dall'emozione che vi presento la prima redazione che racconta della presenza di Radica.menti.
Un grazie commosso a due bellissime donne, che leggo solo virtualmente e che hanno scelto di parlare delle nostre parole piene di noi, di vita, di desiderio, di Bi, Barbara e Di, Daniela.
Lo fanno nel loro spazio artistico sensibile ed accurato:

http://www.sparagnhouse.it/bloghouse/blog-delle-mie-brame-radica-menti-di-bi-ren-bussolotti-quando-il-blog-osa-non-tacere/

Ne siamo onorate!
Grazie care Sara ed Alessandra...di cuore.

Bi&Di
 

radica.menti è un sogno di un pomeriggio invernale,
dalle tonalità grigie intense e profumate di erba bagnata.
annebbiato dall'aroma di karkadè e tè aromatizzato
senza limone e con zucchero di canna
ed affondato su un divano a elle pieno di pensieri.
è un blog molto luogo e poco tempo.





[ph. © Massimiliano Marchese "Monocromatica". lo ringrazio per aver prestato la preziosa arte del suo sguardo alla redazione di Sparagnhouse e a noi di Radica.menti]

 

martedì 16 luglio 2013

non aveva mai temuto la morte

non aveva mai temuto la morte. mai. solo un po' i corpi cerei e senza linfa, lasciati in osservazione alla mercé di tutti. allora sì che le veniva da vomitare. mica per lo schifo, no. per lo sdegno. per un'usanza tanto antica quanto sbagliata.
come quando vide quello di sua nonna, neanche troppi anni addietro. coricata sul lato destro del letto matrimoniale, vicino alla finestra. aperta, in ottobre. le mani portate al petto e giunte al cuore, a rasserenare un corpo ormai lasciato solo. l'anima non era lì, aveva sostato nei giorni precedenti un po' fuori, un po' dentro, un po' desiderosa di trapassare, un po' lacerata dal dolore di chi pregava affinché restasse. restasse dove? e perché? facciamo sempre un sacco di cose senza senso, rimuginava al cospetto di quel corpo lasciato solo, davvero tante, nonna.
non aveva mai temuto la morte, lei. e lo diceva sempre a tutti, così fastidiosamente spavalda da generare quel sentimento che stizzisce chiunque la morte non voglia neanche chiamarla col proprio nome. morte.
io muoio ogni ventisei o ventotto giorni, diceva. con il ciclo mestruale. un flusso di vita selvaggio e sempiterno, presente come il battito al polso, che ormai una non si mette più nemmeno ad ascoltare per quanto ne è assuefatta. tutte le volte è così: una morte che fa rinascere. e lo diceva seria, serena. come una che sa come si muore in piena autonomia e dignità, per giunta, e che non ha quei mal di pancia lancinanti da tirare giù le tende dalle finestre a strapparle vive. pareva non soffrirne, né gioirne. moriva così, rinascendo fiottando sangue dalla vagina piena di energia e viva più che mai.
sua nonna aveva il viso macchiato dalla sofferenza degli ultimi respiri. una donna corpulenta e con capelli radi, dal viso dolce e dalle interiora aggrovigliate. i liquidi del trapasso le avevano lasciato una cicatrice gelida al lato sinistro delle labbra, in basso verso il mento appuntito. color pesca, la macchia, su un viso cipria chiarissimo. persino le gote non erano più rosee come un tempo. persino quelle erano state abbandonate lì, senza un padrone che le facesse risplendere.
non pensava alla morte come fine, né ci pensava in quel momento osservando sua nonna in quel che ne restava. muore anche la luna ogni ventotto giorni, diceva. dopo aver fluttuato per chilometri attorno al proprio universo. da scura, a timidamente gialla e a forma di culla, falciata poi a metà e piena dopo quattordici giorni spaccati. invecchiata precocemente, pronta al suo declino e senza il volere se non il proprio, per libertà di scelta, pronta ad eclissarsi e a farsi cianotica. morta. 
sua nonna anche, di sicuro, si stava trasformando in altro. in energia pronta ad alimentare l'universo. ma non poteva dirlo, mentre i presenti abbozzavano preghiere e sgranavano rosari neri. e sfrondavano lacrime su lacrime, che avrebbero potuto riempire otri intere e annaffiare le terre di tutto il paese in quell'unico giorno autunnale.
e pure l'autunno muore, sempre. e le altre stagioni, che giorno dopo giorno percorrono strade segnate da un conto alla rovescia che le avvicina sempre di più al giorno zero: quello della loro morte.
muoio ogni volta che dopo una domanda mi risponde un silenzio, confessava a se stessa. muoio ad ogni no-non-vengo e no-no-posso, ad ogni abbandono, ad ogni mortificazione inflitta e subita, ad ogni libro divorato e terminato e rallentato nell’ultima pagina da leggere, ad ogni bacio ingoiato fino in fondo e non rilasciato nell'aria.
muoio ogni volta in cui riparto e faccio la discesa che mi strappa le budella dalle mie radici e interrompe quella bevuta di linfa che faccio solo lì. muoio quando strillo, quando la rabbia mi colpisce al centro dello stomaco, quando mi libero da una dipendenza emotiva col passato, quando butto fuori il respiro che ho consumato con la vita e così lo risputo.
muoio quando meno lo so e so ridire, muoio di liberazioni e muoio perché ogni giorno vivo.
lo diceva non per convincersene, ma per vivere di trapassi pieni di riflessi e rifrazioni.
non aveva mai temuto la morte, per davvero. desiderava solo che anche sua nonna non ne avesse più paura e da viscido bruco si fosse liberata in una folgorante e luminosa farfalla.

bi 
 
 
 

“quelli come te, che hanno due sangui diversi nelle vene, non trovano mai riposo né contentezza; e mentre sono là, vorrebbero trovarsi qua, e appena tornati qua, subito hanno voglia di scappar via. tu te ne andrai da un luogo all’altro, come se fuggissi di prigione, o corressi in cerca di qualcuno; ma in realtà inseguirai soltanto le sorti diverse che si mischiano nel tuo sangue, perché il tuo sangue è come un animale doppio, è come un cavallo grifone, come una sirena. e potrai anche trovare qualche compagnia di tuo gusto, fra tanta gente che s’incontra al mondo; però, molto spesso, te ne starai solo. un sangue-misto di rado si trova contento in compagnia: c’è sempre qualcosa che gli fa ombra, ma in realtà è lui che si fa ombra da se stesso, come il ladro e il tesoro, che si fanno ombra uno con l’altro”.

elsa morante, l’isola di arturo


[illustrazione di selena leardini]
 

venerdì 5 luglio 2013

[scelgo]

 
 


scelgo i gialli del tramonto
i rossi delle labbra morse
il non detto e sbirciato
l'oltre della collina che cade nel dirupo

scelgo la sdraia verso est
il merlo e l'aquila reale
di apparecchiare per terra
i cuscini color corda

scelgo l'odore della presenza
la bocca nell'incavo della spalla
di andare verso su
le scale trapassate e vissute

scelgo i sentimenti sommersi
la decisione al posto della scelta
i pomodori solo che profumino
il gelato purché siamo in due

scelgo di leggere e scrivere
di cogliere le parole una ad una
di pensarlo per farlo realtà
di dormire su un lato

scelgo le acque trasparenti
il sale rosa sulla pelle
l'umidità di due corpi che si trovano
fuori e dentro

bi

lunedì 1 luglio 2013

non riesco a raccontare

non riesco a raccontare di quando, poco dopo l’una, la mia gatta ha staccato un pezzo della sua vita per donarla al mondo. l’ho vista con tutti gl’occhi miei. sì, io. ha incurvato la sua schiena nera ed è rimasta ferma come un dipinto per una manciata di secondi, che a me parevano secoli.
ad un tratto un’escrescenza chiara e piena di forza è venuta alla luce, dopo un mese di buio e calore. una luminescenza lucida, che rifletteva i raggi del sole dell’ora di pranzo. quello degli altri. era una vita, la prima di quattro.  
ho portato le mani in bocca, entrambe, a schiacciarla. a soffocare la paura del non essere all’altezza di un così grande dono. lei ha afferrato la vita in bocca, con tutto l’amore dell’essere madre per la prima volta, e me l’ha portata davanti ai piedi. aveva lo sguardo inesperto di chi dona tutto ciò che sa e tutto ciò che è: una parte di sé. 
il sangue languiva i suoi movimenti e i suoi occhi giallognoli e lucidi continuavano a fissare in fondo ai miei. attimi lunghi come ere mi annebbiavano la mente e mi rendevano inadatta. alla maternità fatta di umori sbiaditi e gocce di sangue. alla vita lunga pochissimi centimetri, eppure già sufficiente a se stessa e pronta ad attaccarsi con energia all’universo intero. al dolore uterino della mia amorevole micia, che appena poco fa ha compiuto solo un anno e che per me è ancora così tanto figlia.
non riesco a raccontare di come io l’abbia supplicata di aiutarmi a capire come potessi aggiungere vita a così tanta immensità. io, che la vita finora l’avevo solo immaginata.
di nuovo lo sguardo su di me, la bocca aperta per sussurrarmi del suo bisogno così intimo ed un’altra vita arrivata alla luce. il suo secondo atto d’amore era compiuto, afferrato tra i suoi denti premurosi e portato davanti ai piedi miei. un corpicino fradicio e scuro si muoveva davanti a me, mentre sua madre cercava le mie mani. filamenti ambrati e lunghi lo avvolgevano, mentre io ancora più impietrita ho portato di nuovo le mie mani alla bocca.
volevo solo piangere. allagarmi l'iride di lacrime come tende su finestre chiuse, disperarmi per la paura di fronte alla vita, laddove credevo che si potesse provare solo gioia. ero dispiaciuta nel non provare solo felicità, ma paura del pericolo della morte. l’altrui.
non riesco a raccontare cosa abbia pensato, cosa abbia temuto, cosa abbia provato, cosa abbia fatto. cos’abbia fatto nel frattempo sua mamma lola, mamma esperta, nell'aiutarla e nel ripulirla dal sangue e dai suoi umori uterini. cos’abbia fatto la mia tenera trilly, piena dell’istinto del fare la madre all’improvviso a quattro vite calde, che fino a pochi istanti prima manteneva dentro di sé, in fondo, al riparo dai pericoli del mondo.




non riesco a raccontarlo.
e non riesco a raccontare nemmeno della pienezza di trovarmi da sola in cima al bosco di faggi secolari alti più di palazzi, di calpestare cuscini di foglie scivolosi e morbidi, di passare sotto quei rami ampi come ombrelli senza pioggia, di ascoltare il silenzio della terra inumidita e fresca delle otto del mattino, di faticare per ogni passo affilato all’altro per salire sempre più in alto, di sentire gli odori della presenza nient’affatto assente di chi in quel bosco ci vive tutte le ore del giorno, di incontrare fiori come spilli, di respirare con profondo affanno e pregare di arrivarci alla fine di quei passi per gustarne la bellezza dei frutti.
finito il  bosco in tutta la sua immateriale infinità si è aperto il prato. una distesa più verde del verde, muschiata e folta, senza erba come fili ma piena di trifogli come minuscoli cespugli. e colline e montagne e il vento sul viso e il sole dentro gl’occhi e il galoppo dei cavalli selvatici.
poi finalmente il lago. in tutta la sua fierezza estiva, seppure inaridito dalla fine delle nevi. è lui che racconta le montagne, baciandole e rubando loro l’anima, tatuandosela addosso, restituendone tutti i suoi riflessi.  
c’era un luogo nelle mie notti sognate ed era proprio così, come quello.
non riesco, non riesco a raccontare del cuore in gola di fronte al precipizio di oltre mille metri, del vortice sordo che mi ha avvertito di restare lì, di non accostarmi oltre. verso il vuoto. un vuoto con un altro bosco, con altissime pareti appenniniche sbriciolate e friabili, grigie, un po’ marroni, impervie. vive. il cielo pesante mi ha aiutato a restare salda sulla roccia, come una delle più fragili stelle alpine.




non riesco a raccontare tutto ciò, me ne dispiace.
non riesco, perché i fotogrammi di questi pezzi infinitesimali di realtà schizzano via come inafferrabili farfalle, volano impazziti rimbombandomi in fondo alla testa, mi saccheggiano dentro con l’intensità di un uragano che fa tremare la terra alla sue basi più intime.
non riesco, eppure ce l'ho da qualche parte. 

bi

[ph. bi]