martedì 16 luglio 2013

non aveva mai temuto la morte

non aveva mai temuto la morte. mai. solo un po' i corpi cerei e senza linfa, lasciati in osservazione alla mercé di tutti. allora sì che le veniva da vomitare. mica per lo schifo, no. per lo sdegno. per un'usanza tanto antica quanto sbagliata.
come quando vide quello di sua nonna, neanche troppi anni addietro. coricata sul lato destro del letto matrimoniale, vicino alla finestra. aperta, in ottobre. le mani portate al petto e giunte al cuore, a rasserenare un corpo ormai lasciato solo. l'anima non era lì, aveva sostato nei giorni precedenti un po' fuori, un po' dentro, un po' desiderosa di trapassare, un po' lacerata dal dolore di chi pregava affinché restasse. restasse dove? e perché? facciamo sempre un sacco di cose senza senso, rimuginava al cospetto di quel corpo lasciato solo, davvero tante, nonna.
non aveva mai temuto la morte, lei. e lo diceva sempre a tutti, così fastidiosamente spavalda da generare quel sentimento che stizzisce chiunque la morte non voglia neanche chiamarla col proprio nome. morte.
io muoio ogni ventisei o ventotto giorni, diceva. con il ciclo mestruale. un flusso di vita selvaggio e sempiterno, presente come il battito al polso, che ormai una non si mette più nemmeno ad ascoltare per quanto ne è assuefatta. tutte le volte è così: una morte che fa rinascere. e lo diceva seria, serena. come una che sa come si muore in piena autonomia e dignità, per giunta, e che non ha quei mal di pancia lancinanti da tirare giù le tende dalle finestre a strapparle vive. pareva non soffrirne, né gioirne. moriva così, rinascendo fiottando sangue dalla vagina piena di energia e viva più che mai.
sua nonna aveva il viso macchiato dalla sofferenza degli ultimi respiri. una donna corpulenta e con capelli radi, dal viso dolce e dalle interiora aggrovigliate. i liquidi del trapasso le avevano lasciato una cicatrice gelida al lato sinistro delle labbra, in basso verso il mento appuntito. color pesca, la macchia, su un viso cipria chiarissimo. persino le gote non erano più rosee come un tempo. persino quelle erano state abbandonate lì, senza un padrone che le facesse risplendere.
non pensava alla morte come fine, né ci pensava in quel momento osservando sua nonna in quel che ne restava. muore anche la luna ogni ventotto giorni, diceva. dopo aver fluttuato per chilometri attorno al proprio universo. da scura, a timidamente gialla e a forma di culla, falciata poi a metà e piena dopo quattordici giorni spaccati. invecchiata precocemente, pronta al suo declino e senza il volere se non il proprio, per libertà di scelta, pronta ad eclissarsi e a farsi cianotica. morta. 
sua nonna anche, di sicuro, si stava trasformando in altro. in energia pronta ad alimentare l'universo. ma non poteva dirlo, mentre i presenti abbozzavano preghiere e sgranavano rosari neri. e sfrondavano lacrime su lacrime, che avrebbero potuto riempire otri intere e annaffiare le terre di tutto il paese in quell'unico giorno autunnale.
e pure l'autunno muore, sempre. e le altre stagioni, che giorno dopo giorno percorrono strade segnate da un conto alla rovescia che le avvicina sempre di più al giorno zero: quello della loro morte.
muoio ogni volta che dopo una domanda mi risponde un silenzio, confessava a se stessa. muoio ad ogni no-non-vengo e no-no-posso, ad ogni abbandono, ad ogni mortificazione inflitta e subita, ad ogni libro divorato e terminato e rallentato nell’ultima pagina da leggere, ad ogni bacio ingoiato fino in fondo e non rilasciato nell'aria.
muoio ogni volta in cui riparto e faccio la discesa che mi strappa le budella dalle mie radici e interrompe quella bevuta di linfa che faccio solo lì. muoio quando strillo, quando la rabbia mi colpisce al centro dello stomaco, quando mi libero da una dipendenza emotiva col passato, quando butto fuori il respiro che ho consumato con la vita e così lo risputo.
muoio quando meno lo so e so ridire, muoio di liberazioni e muoio perché ogni giorno vivo.
lo diceva non per convincersene, ma per vivere di trapassi pieni di riflessi e rifrazioni.
non aveva mai temuto la morte, per davvero. desiderava solo che anche sua nonna non ne avesse più paura e da viscido bruco si fosse liberata in una folgorante e luminosa farfalla.

bi 
 
 
 

“quelli come te, che hanno due sangui diversi nelle vene, non trovano mai riposo né contentezza; e mentre sono là, vorrebbero trovarsi qua, e appena tornati qua, subito hanno voglia di scappar via. tu te ne andrai da un luogo all’altro, come se fuggissi di prigione, o corressi in cerca di qualcuno; ma in realtà inseguirai soltanto le sorti diverse che si mischiano nel tuo sangue, perché il tuo sangue è come un animale doppio, è come un cavallo grifone, come una sirena. e potrai anche trovare qualche compagnia di tuo gusto, fra tanta gente che s’incontra al mondo; però, molto spesso, te ne starai solo. un sangue-misto di rado si trova contento in compagnia: c’è sempre qualcosa che gli fa ombra, ma in realtà è lui che si fa ombra da se stesso, come il ladro e il tesoro, che si fanno ombra uno con l’altro”.

elsa morante, l’isola di arturo


[illustrazione di selena leardini]
 

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