martedì 24 settembre 2013

al numero venticinque

al numero venticinque ci abitano quattordici famiglie. tre per piano, due al quarto. il primo è un piano terra, senza balconi e con quattordici cassette della posta ordinate simmetricamente su due file. le incornicia un legno liscio e spesso e sono chiuse da uno sportello in ferro color ottone, opaco e rigato.
ci abito da quando sono nata al numero venticinque. da quando il giardino del cortile era incolto e selvatico, con un'ortensia media e sottile sul bordo stondato e tanti quadrifogli e fiori fucsia con i petali tondi e regolari. e tanta ghiaia. tantissima ghiaia al centro, di quella che restavo lì a smucinarla per ore, nella speranza di trovare dei sassi preziosi. lisci, un po' marmorei, sulle tonalità del miele, grigi cangianti e neri rugosi. bianchi no, non mi pare. troppo rari per restarsene in un cortile di provincia.
ci sto da quando ancora non esisteva il cancello a serrare il cortile e il vialetto era allargato verso il fuori, verso gli altri. quelli di passaggio o quelli invitati ad entrare. non c'era la paura dei ladri, solo un po' degli zingari, quelli sì. che giravano la domenica mattina dopo le dieci e spiavano le famiglie pronte ad andarsene. poi magari entravano e (dicono tutti) segnavano gli assenti o i presenti, scalfendo croci e simboli da streghe medievali sulle targhette dei nomi. tutte cretinate, secondo me, non lo so.
al secondo piano al centro, interno otto, siamo sempre stati lì. con un campanello con una lunga eco, molto elegante, eppure un po' troppo squillante. che gli altri mi parevano più discreti, più smorzati, mentre il nostro (boh) forse era così perché mio padre è da sempre fissato con le cose che squillano belle forti.
al secondo non ci stavo mai, salivo sempre a piedi al terzo da laura e federica. lì era tutto più bello, più alto e con le finestre disposte su tre lati del palazzo. il balcone era ampio e a elle e il salone così grande da correrci perbene e nascondercisi meglio.
salivo tutti i giorni, già dalla mattina per andare a scuola insieme. appena entrata, annusavo quell'odore di caffellatte tipico di casa loro. non era affatto come il mio. poi il pomeriggio federica mi aiutava con i problemi di matematica, mentre laura mi insegnava i trucchi del manuale delle giovani marmotte. ordinavamo i fumetti di topolino per data e salivamo ad accatastarli nei cartoni in soffitta, una volta che fossero aumentati troppo da non stare più in libreria. ci vestivamo da maestrina del far west e da dama con il cappello a falda larga, da cow boy e da punk, tutte truccate col nero sugli occhi e sulle guance.
salire in soffitta era troppo divertente. eravamo così in alto da vedere tutti i tetti e da affacciarci dentro al tetto del nostro palazzo. dentro proprio. al centro c'era un ampio stenditoio nascosto e in una porticina a destra la soffitta di laura. un posto caldissimo e dall'odore di chiuso perenne, pieno di piccole magie nascoste.
loro non ci sono più al numero venticinque. da tanti anni, da quando, finite le elementari, se ne andarono due palazzi più in là, in un quarto piano più grande e con un terrazzo coltivato come un giardino meraviglioso. da allora per me non fu più lo stesso venticinque: un pezzo importante di questo cinque elevato alla seconda era andato via per sempre, seppure per stare meglio, e nel frattempo non era più lì con me. un addio difficile da sistemare dentro.
il terzo piano era il loro, così come il secondo era il nostro. poche certezze hanno i bambini nella vita fanciullesca, quella era una delle mie: laura e federica sopra a destra, guardando a nord.
non ci sono più molti figli. al nostro tempo bambino, era pieno di piccole biciclette che sfrecciavano nel cortile dei garage e di palloni che finivano al primo piano, sopra al pezzo di prato con l'ortensia. e giocavamo a campana, in uno spazio due-per uno-per due-per uno-per due delimitato dalle lastre di marmo del pavimento dell'entrata del cortile.
ora c'è più silenzio, contornato da voci adulte e odori anziani, ed io non sono ancora andata da un'altra parte. non so come possa essere non abitare al venticinque e non stare all'interno otto (boh). non è più lo stesso venticinque, no, eppure ogni volta che varco la soglia del cancello e lo richiudo rivedo ancora tutto. e scorgo pure dei sassolini bianchi.

bi





[ph. niebl mirella, the unexpected]

lunedì 16 settembre 2013

preferisco chiudere gli occhi



"in viaggio, quando gli occhi cambiano ogni prospettiva
dando spazio alla circolarità".
maria a. listur


non puoi neppure immaginare
come possa smembrarmi
e permanere in più luoghi.
la mia casa è il vuoto,
il mio amore è il silenzio a scaldarla.
sono ricami le fratture del pavimento
su cui m'agito ogni giorno,
sono ricami quelli della roccia
dentro cui ho sigillato le parole.
vorrei essere trovata e strappata
a questa quiete indifferente e sorda,
vorrei che raccogliessi il cerchio dell'anima mia
e te lo infilassi nel dito indice.
com'a dire: laggiù, quello è il dove che c'aspetta.
sono ancora viva, non più orientata,
vedo e preferisco chiudere gli occhi.
tutte queste acque tra di noi
rimescolano i destini intagliati
e scombinano le ferite sui nostri corpi.
il taglio che ti ho inferto
è ora una fessura aperta al mondo.
lasciala così: spalancata.
amami con la bocca,
come un poeta ama le sue righe
nate dalla forma.
io t'amerò con le orecchie,
come un musico ansima appresso alle sue note.
t'inseguo ad occhi aperti e ti perdo,
sei come un bandolo ingoiato dal vuoto.
andrò dunque oltre il numero di avocadro.
sarà allora che ci separeremo
ciascuno dalle proprie membrane
e rimarrò senza parole, né nostalgia alcuna.
ora preferisco chiudere gli occhi.

bi





[creazione di christian schloe digital art]

venerdì 13 settembre 2013

settembre non è bello se non è…

litigarello.
si litiga a settembre e si fa pace ad ottobre. è una questione di numeri: sette(-mbre). e il sette è quello della crisi del settimo coso, in cui tutti sbroccano e, invece di vedersi belli e con gli occhi a cuore, si ritrovano a tirarsi buste dell'immondizia (chiuse) addosso.
d'altronde il sette è mistico, è storto e ritorto, è numero primo, sì, insomma, nel girone dei numeri primi è come saturno per i pianeti: quando ce l'hai contro, è guerra (e ho detto guerra).
si litiga pure davanti alle scuole per un parcheggio in primerrima fila, che consenta ai genitori di accompagnare i propri figli dentro all'asilo, senza che nessuno si bagni troppo le scarpe comprate coi saldi di fine agosto. si litiga per scattare loro una foto centratissima con i grembiuli bianchi e blu e arcobaleno, ricchi di manine ben piantate sulle tracolle pulitissime delle cartelle (ah, no, che dico: degli zaini, mica stiamo ai miei tempi), per poterle subito esibire a parenti e amici e social network e amici al bancone del bar e vicini di casa e simili.

pioggerello.
peraltro è così: settembre introduce l'autunno con l'equinozio del ventidue. un periodo meraviglioso, occhei, quanto malinconico, pieno di giorni stracolmi di lacrime amare, che sbattono la porta in faccia all'estate luminosa e assolata, tutti e trenta insieme. mica uno ad uno: tutti e trenta spingono in un attimo il portone in faccia al trentuno agosto e punto. si devono di nuovo attendere tipo duecentottanta giorni, prima che torni il tepore del sole fino a tardi.
che poi "piove dalle nuvole sparse / piove su le tamerici salmastre ed arse" d'annunzio l'avrebbe voluta scrivere di getto in un giorno di settembre, ne sono certa, ed invece per la fretta si era sbrigato e l'aveva composta in estate, perché era stato lasciato.

…azzurro, anzi azzurrello.
azzurro, settembre è troppo azzurro e lungo per me, mi accorgo di non avere più risorse senza di te. e allora io quasi quasi prendo il treno e vengo, vengo da te. ma il treno dei desideri nei miei pensieri all’incontrario va
(uh! m'ero fatta prendere dalle botte di celentanite che giacciono felici in me)
dicevo, azzurrello. perché il cielo ha questa tinta decisa e forte, senza incertezze e titubanze, è pulito e limpido. il mare pure è azzurrissimo e di più, col cielo che se lo bacia e gli si tuffa dentro in un amplesso amoroso ed intenso. tutto intorno s'inumidisce e si scurisce di tre, quattro toni, prima di imbrunirsi ed ingiallirsi. le montagne azzurrano i propri riflessi sotto i raggi sbiechi del sole e i vestiti si stratificano un poco e le coperte dai tessuti sottili si accoccolano sopra i nostri corpi rientrati alle scomode ripetizioni giornaliere.
azzurro, dipinto d’azzurro: così è settembre, se vi pare.

principiello
fatto di prìncipi e princìpi, inizi, esordi, aperture, novità, rinascite. tanto che non si può restarne sordi al richiamo e si comincia a saltellare verso nuove mete e larghe vedute. genti che si sposano, che nascono (settembre è zeppo di compleanni ed anniversari in famiglia mia), che fanno esami, scrivono tesi, vanno in primo superiore, partono per fine settimana allungati e ancora carichi di voglia di ferie d'agosto, che fanno diete macrobiotiche e consultano omeopati e streghe bianche.

andiamo, è settembre, è tempo di librare.
settembre non è bello se non è iniziato e vissuto.
(ohibò).

bi
 



[immagine tratta da hub09 social design]
 
 

mercoledì 11 settembre 2013

storia di un luogo chiamato amore



scritto lo scorso undici settembre
per un amore oggi quarantunenne






- qual è il segreto per restare insieme quarant’anni?

- ascoltare insieme la sua musica classica e i miei celentano e morandi, dentro la stessa macchina, dentro casa con lo stesso stereo. che poi sono quarantasei: sei anni di fidanzamento ufficiale, quando si fece più di centocinquanta chilometri con la cinquecento di suo padre, in mezzo alla neve alta e senza autostrada. era san valentino.

abbassò lo sguardo e lo fece scivolare giù, immergendolo nel pavimento. il suo naso sottile ed appuntito creò un’ombra sulle labbra, che trattennero altre parole. era volata proprio lì, verso quel san valentino. ed io la vedevo.

- fuggiva da me appena possibile, perché sapeva che ero lì ad aspettarlo. e non si faceva aspettare poi molto. altre volte invece l’ho aspettato a lungo, senza che arrivasse mai. rubava la macchina a suo padre, neanche ne aveva ancora una tutta per sé. l’amore è un atto di coraggio, sai? un giorno ci lasciammo. il distacco durò sei mesi, forse di più, eppure tornò lui e mi giurò che sarebbe stato per sempre, se io l’avessi voluto. “o me, o la musica” gli risposi secca, senza neanche concedergli un’occhiata. sapevo bene cosa gli stessi chiedendo. bene, lui fu coraggioso: scelse me. era la sua assenza che non potevo sopportare, il fatto che non ci fosse, che io mi sentissi abbandonata, mentre lui trascorreva le sue serate fuori tra musica e musicisti, in un mondo in cui io non avevo spazio. continuò a suonare comunque, ma in modo diverso: suonò per me, per l’aria di casa nostra, per insegnare la sua sensibilità agli altri. con passione, la sua.

- erano bellissimi: lui, il suo violino e la sua folta barba nera.

- sì, eccome! ci sposammo un lunedì pomeriggio, con poco, pochissimo, ma comunque con ciò che fosse sufficiente per amarci. anche per litigare, scontrarci, ammusarci, ritrovarci, abbracciarci, perdonarci e perderci nei nostri sguardi innamorati, ancora una volta. quel giorno era bellissimo ed il vestito glielo regalai io: un mezzo tait nero, con sotto una sottile camicia bianca ed un cravattino nero nascosto sotto al collo. portò i suoi occhi verdi bagnati dalla commozione fino ai miei. e ci scambiammo il nostro per sempre.

quel giorno anche lei era uno splendore, un raggio di luce incantevole che camminava sognante, accompagnata da suo fratello, nell’assenza di un padre mancato troppo presto. il suo sguardo lo gridava in silenzio: “vorrei infilare il mio braccio destro in quello sinistro di mio padre”.
a lui dedicò un trucco azzurro come il cielo abruzzese di settembre e delle rose chiare appuntate su una lunga veste candida, liscia e raffinata. se le mise anche in testa e profumava di mancanza e bellezza. tutta.

- siamo il giorno e la notte, eppure non ci siamo arresi. io non mi sono arresa.

e sottolineò quell’io, portando in alto le sopracciglia nere e ben disegnate, incantandosi in un movimento oscillatorio e regolare del mento, dal basso verso l’alto, dall’alto verso il basso, in un moto perpetuo che in quel momento generava un’energia cosmica che ci avvolgeva tutte.
avevano sofferto entrambi molto e non c’era alcun bisogno di dirselo a parole. eppure avevano sempre avuto il potere di tramutare il dispiacere di uno scontro in un nuovo inizio.

- ci si sceglie e ci si ama. pienamente, capito? sono le anime a scegliersi e i corpi le seguono senza indugio, nel rispetto reciproco. quando ci è capitato di esitare, sono corsa a cercare mio marito, l’ho fermato all’ingresso di casa e l’ho interrogato con lo sguardo. glielo dicevo che ero lì, che la comunanza avrebbe vinto sulla differenza, e glielo dicevo quanto lo amassi. anche in silenzio. e lo ha fatto anche lui con il suo, di silenzio. ci si ama anche così, senza le parole.

- qual è la verità del vostro amore?

- la nostra verità è che devi gridare, se l’amore grida forte, e che non devi smettere mai di guardare verso la stessa direzione.

- e se uno si confondesse e distogliesse lo sguardo?

- l’altro dovrebbe essere bravo ad accorgersene, andarselo a riprendere e riportarlo lì. il nostro amore non è un quando, è un dove da vivere e arredare insieme. questi quarant’anni sono un luogo chiamato amore.

uscì poco dopo, uscì assieme a lui. lui le prese la mano, lei gliela strinse nella sua.
la sera nel letto lei gli diede la buona notte, allungandogli un bacio sulle labbra e poggiando i piedi caldi sui suoi, sempre gelidi. lui si scaldò. lei gli chiese di abbassare il volume della tivù, lui lo abbassò.
lui la chiamò amore, con l’ardore di un eterno schiodato dal tempo, e lei lo sognò quella stessa notte.
non sognò un quando. sognò un dove.

bi

(a mio padre e mia madre,
al loro matrimonio oggi quarantunenne).



[immagine tratta dal film
"ferro 3 la casa vuota"
di kim ki-duk:
"siamo tutti case vuote
e aspettiamo qualcuno
che apra la porta e ci renda liberi"]

lunedì 9 settembre 2013

nasi rossi

la fine accade.  

si stringevano a soffocarsi, a fondere l'una le braccia nella pelle dell'altra. s'oltrepassavano di strette e nascondevano i visi bianchi nel solco del collo, infradiciato di pianto.  
sono tutti così quegli abbracci: tolgono il respiro. il loro era prolungato, fisso e ininterrotto, a volte dondolato, come a dire "ti stringo di più, di più ancora di come tu possa sentire" e poi ritornava immobile e impassibile. silenzioso, un abbraccio lungo e silente.
nessuno sembrava accorgersene, seppure fossero sul ciglio della strada all'ora di pranzo, tranne l'altra. le osservava muta e sofferente e si premeva forte un fazzoletto candido sul naso. piangeva. le guardava e piangeva, sempre di più, piangeva e le fissava, mentre continuavano a restare intrappolate nel loro abbraccio a due.
non una parola, né un sussulto o, che so io, uno sguardo rivolto altrove. solo loro e il loro pianto intrecciato e il pianto dell'altra sopra il loro. erano attorcigliate in quella stretta annebbiata e vischiosa, mentre l'altra pareva una triste spettatrice affranta.
aleggiava un senso di morte. è la morte che ti fa premere degli insipidi fazzoletti bianchi sul naso, fino ad irritarlo e a farlo diventare rosso.  
ecco che finalmente mollarono la presa e s'incrociarono con lo sguardo, bisbigliando brevi parole confuse, per poi ripiegare i visi a terra. fu allora che l'altra si fece avanti, piuttosto esitante, e abbracciò anche lei la donna di spalle in lacrime. un abbraccio breve e gentile, di quelli che si concedono in quelle circostanze: quando ti muore uno caro.
ognuna aveva un fazzoletto personale e, durante quell'incontro, lo portava per conto proprio sul naso, a momenti alterni ed in maniera indipendente rispetto ai movimenti altrui. lo asciugavano, lo strofinavano, gli tamponavano le narici inumidite, lo usavano come sfogo per il loro corpo elettrizzato. ecco perché i nasi erano rossi, quelli di tutte e tre. a forza di sfregarli sulla carta legnosa del fazzoletto.
avevano nasi rossi e quei nasi rossi le accomunavano, imbevute com'erano in quel clima funereo di una fine purtroppo accaduta.
continuarono a parlare, pure se nessun suono sembrava spargersi intorno a loro. solo un alone indaco chiaro, doloroso e di non accettazione, che pareva ribadire quanto fosse colpa della vita quando la morte succede.
una sembrava soffrire più di tutte ed era la piccola donna bionda di spalle alla strada. era lei che, scesa dalla macchina, si era lanciata nell'abbraccio lungo e silenzioso, senza staccarsene più. la sua amica s'era spalancata e l'aveva accolta a sé e si stava lacerando il cuore insieme a lei, partecipando intimamente a quell'assenza ricalcata e fresca di giornata. l'altra era portata a commozione alla vista di quel dolore così tanto pianto e abbracciato.
la fine d'altronde accade a tutti, prima o poi, e pare pure non finire mai. era accaduta anche quel giorno e non faceva che finire di continuo, morendo più volte. moriva di nuovo, ad ogni abbraccio. ad ogni soffiata di naso. ad ogni breve frase raccontata. ad ogni pianto soffocato nell'incavo del collo.
nasi rossi dolenti di morte erano i loro.
ché è la morte che ti fa premere quegli stupidi fazzoletti bianchi sul naso, aspri e grossolani, nient'affatto morbidi e così freddi, da tingere i nasi. i nasi di rosso.

bi







 
 
"io non so se la solitudine, se quello
strazio chiamato solitudine, se quell'andare
via dei corpi cari, se quel restare soli
dei vivi, io non so se quel lamento della
solitudine, se quel portarci via le facce,
se quel loro sparire
di facce che avevamo dentro il respiro, non so
se il dono sia questo portarci via le
carezze, questa slacciatura.
è poco il poco che so e di questo
poco io chiedo perdono.
io chiedo
perdono per quello che so, perdono io chiedo
per tutto quello che so".

tratto da parsifal, in fuoco centrale e altre poesie per il teatro
di mariangela gualtieri
 
 
[illustrazione di pierre mornet]

 

martedì 3 settembre 2013

sarebbe...ma non posso

sarebbe auspicabile dire che sia bellissimo tornare dopo venti-e-passa giorni e provare gioia e piacere nel ritrovare i colleghi. quell’orda infernale che allevia le giornate barbose in ufficio (dicunt).
che la città al rientro non puzzi di cane morto e non sia ancora più cinerea del nove agosto. e pure che quell’orizzonte grigio che scorgo dall’autostrada, tornando, altro non sia che lo scenario costruito a cinecittà per un odioso film di paura.
che quello in casa sia solo odore di chiuso e non quel fetore infantile che accompagna i miei ritorni dai tempi che furono, pieni di lacrime e musiche di ligabue e dei depeche mode sparati dentro grosse cuffie. un odore tipo di blatte castano scuro-cioccolato, che vedono me entrare tristerrima, seppure io non possa vedere loro.
sarebbe cosa giusta e buona convincersi che il silenzio della casa vuota sia un silenzio gemello di quello di due giorni fa, dieci giorni fa, venti giorni fa, perché tanto sempre silenzio si chiama. quello pieno di fiori, monti, cose verdi, strade deserte, vicoli caldi e ventosi.
che lo spazzolino morbido che ho qui sia morbido come quello che ho lasciato lì e che disfare le valigie sia meno faticoso che farle.
che le mie gatte, che mi aspettavano tutte le notti in cima alle scale per accompagnarmi davanti all’uscio e assicurarsi che andassi a dormire lì, fossero proprio lì solo per cibo e bevande, e non per queste sciocchezze da ragazzina dell’asilo.
sarebbe meglio pure dire che i colori della città siano accesi come quelli delle montagne, già solo infilandosi su per gli occhi un collirio omeopatico (evvia).
che la luna davanti al balcone tutte le sere o quasi io ce l’abbia anche qui, pur vedendo che il balcone guarda il nord (e il nord la luna lo snobba e lo guarda frontale, con aria di sfida).
che le piante in balcone mi amino come la lavanda e la menta e il mandorlo dell’orto.
che il problema sia solo mio, che sono una romantica visionaria disadattata controcorrente.
sarebbe bello, sì.
sarebbe una salvezza per una come me, che è così da trentanove anni.
sarebbe, sì che lo sarebbe.
ma non posso.

bi



 
"e starmene al centro, abbracciata da un cuscino destro e verticale.
e chiudere le persiane di fronte alla luna e alla collina abitata.
e l'onda di lavanda e menta che mi avvolge pochi passi prima di inchiavare la porta al rientro.
e gli schiamazzi degli uccelli come unici rumori.
e gli zoccoli di legno e il pigiama a fiori, pure quelli.
e i sogni come richiami, coi risvegli di un tempo.
mancanze.
si chiamano così".

 
bi

[ph. bi]