al numero venticinque ci abitano quattordici famiglie. tre
per piano, due al quarto. il primo è un piano terra, senza balconi e con
quattordici cassette della posta ordinate simmetricamente su due file. le
incornicia un legno liscio e spesso e sono chiuse da uno sportello in ferro
color ottone, opaco e rigato.
ci abito da quando sono nata al numero venticinque. da
quando il giardino del cortile era incolto e selvatico, con un'ortensia media e
sottile sul bordo stondato e tanti quadrifogli e fiori fucsia con i petali
tondi e regolari. e tanta ghiaia. tantissima ghiaia al centro, di quella che
restavo lì a smucinarla per ore, nella speranza di trovare dei sassi preziosi.
lisci, un po' marmorei, sulle tonalità del miele, grigi cangianti e neri rugosi.
bianchi no, non mi pare. troppo rari per restarsene in un cortile di provincia.
ci sto da quando ancora non esisteva il cancello a
serrare il cortile e il vialetto era allargato verso il fuori, verso gli altri.
quelli di passaggio o quelli invitati ad entrare. non c'era la paura dei ladri,
solo un po' degli zingari, quelli sì. che giravano la domenica mattina dopo le
dieci e spiavano le famiglie pronte ad andarsene. poi magari entravano e
(dicono tutti) segnavano gli assenti o i presenti, scalfendo croci e simboli da
streghe medievali sulle targhette dei nomi. tutte cretinate, secondo me, non lo
so.
al secondo piano al centro, interno otto, siamo sempre
stati lì. con un campanello con una lunga eco, molto elegante, eppure un po'
troppo squillante. che gli altri mi parevano più discreti, più smorzati, mentre il
nostro (boh) forse era così perché mio padre è da sempre fissato con le cose
che squillano belle forti.
al secondo non ci stavo mai, salivo sempre a piedi al
terzo da laura e federica. lì era tutto più bello, più alto e con le finestre
disposte su tre lati del palazzo. il balcone era ampio e a elle e il salone
così grande da correrci perbene e nascondercisi meglio.
salivo tutti i giorni, già dalla mattina per andare a scuola
insieme. appena entrata, annusavo quell'odore di caffellatte tipico di casa
loro. non era affatto come il mio. poi il pomeriggio federica mi aiutava con i
problemi di matematica, mentre laura mi insegnava i trucchi del manuale delle
giovani marmotte. ordinavamo i fumetti di topolino per data e salivamo ad
accatastarli nei cartoni in soffitta, una volta che fossero aumentati troppo da
non stare più in libreria. ci vestivamo da maestrina del far west e da dama con
il cappello a falda larga, da cow boy e da punk, tutte truccate col nero sugli
occhi e sulle guance.
salire in soffitta era troppo divertente. eravamo così in
alto da vedere tutti i tetti e da affacciarci dentro al tetto del nostro palazzo.
dentro proprio. al centro c'era un ampio stenditoio nascosto e in una porticina
a destra la soffitta di laura. un posto caldissimo e dall'odore di chiuso
perenne, pieno di piccole magie nascoste.
loro non ci sono più al numero venticinque. da tanti
anni, da quando, finite le elementari, se ne andarono due palazzi più in là, in
un quarto piano più grande e con un terrazzo coltivato come un giardino
meraviglioso. da allora per me non fu più lo stesso venticinque: un pezzo
importante di questo cinque elevato alla seconda era andato via per sempre,
seppure per stare meglio, e nel frattempo non era più lì con me. un addio difficile da sistemare dentro.
il terzo piano era il loro, così come il secondo era il
nostro. poche certezze hanno i bambini nella vita fanciullesca, quella era una
delle mie: laura e federica sopra a destra, guardando a nord.
non ci sono più molti figli. al nostro tempo bambino,
era pieno di piccole biciclette che sfrecciavano nel cortile dei garage e di
palloni che finivano al primo piano, sopra al pezzo di prato con l'ortensia. e
giocavamo a campana, in uno spazio due-per uno-per due-per uno-per due
delimitato dalle lastre di marmo del pavimento dell'entrata del cortile.
ora c'è più silenzio, contornato da voci adulte e odori
anziani, ed io non sono ancora andata da un'altra parte. non so come possa essere non abitare al venticinque e non stare all'interno otto (boh). non è più lo stesso venticinque, no, eppure ogni volta
che varco la soglia del cancello e lo richiudo rivedo ancora tutto. e scorgo pure dei
sassolini bianchi.
bi
[ph. niebl mirella, the unexpected]
Nessun commento:
Posta un commento