si stringevano a
soffocarsi, a fondere l'una le braccia nella pelle dell'altra. s'oltrepassavano
di strette e nascondevano i visi bianchi nel solco del collo, infradiciato di pianto.
sono tutti così quegli
abbracci: tolgono il respiro. il loro era prolungato, fisso e ininterrotto, a
volte dondolato, come a dire "ti stringo di più, di più ancora di come tu possa
sentire" e poi ritornava immobile e impassibile. silenzioso, un abbraccio lungo
e silente.
nessuno sembrava accorgersene,
seppure fossero sul ciglio della strada all'ora di pranzo, tranne l'altra. le
osservava muta e sofferente e si premeva forte un fazzoletto candido sul naso.
piangeva. le guardava e piangeva, sempre di più, piangeva e le fissava, mentre
continuavano a restare intrappolate nel loro abbraccio a due.
non una parola, né un
sussulto o, che so io, uno sguardo rivolto altrove. solo loro e il loro
pianto intrecciato e il pianto dell'altra sopra il loro. erano attorcigliate in
quella stretta annebbiata e vischiosa, mentre l'altra pareva una
triste spettatrice affranta.
aleggiava un senso
di morte. è la morte che ti fa premere degli insipidi fazzoletti bianchi sul
naso, fino ad irritarlo e a farlo diventare rosso.
ecco che finalmente
mollarono la presa e s'incrociarono con lo sguardo, bisbigliando brevi parole
confuse, per poi ripiegare i visi a terra. fu allora che l'altra si fece
avanti, piuttosto esitante, e abbracciò anche lei la donna di spalle in lacrime. un
abbraccio breve e gentile, di quelli che si concedono in quelle circostanze:
quando ti muore uno caro.
ognuna aveva un
fazzoletto personale e, durante quell'incontro, lo portava per conto proprio sul
naso, a momenti alterni ed in maniera indipendente rispetto ai movimenti altrui. lo asciugavano,
lo strofinavano, gli tamponavano le narici inumidite, lo usavano come sfogo per
il loro corpo elettrizzato. ecco perché i nasi erano rossi, quelli di tutte e
tre. a forza di sfregarli sulla carta legnosa del fazzoletto.
avevano nasi rossi e quei
nasi rossi le accomunavano, imbevute com'erano in quel clima funereo di una fine purtroppo accaduta.
continuarono a
parlare, pure se nessun suono sembrava spargersi intorno a loro. solo un alone
indaco chiaro, doloroso e di non accettazione, che pareva ribadire quanto fosse colpa della vita quando la morte succede.
una sembrava soffrire più di
tutte ed era la piccola donna bionda di spalle alla strada. era lei che, scesa dalla macchina, si era
lanciata nell'abbraccio lungo e silenzioso, senza staccarsene più. la sua amica s'era
spalancata e l'aveva accolta a sé e si stava lacerando il cuore insieme a lei,
partecipando intimamente a quell'assenza ricalcata e fresca di giornata. l'altra
era portata a commozione alla vista di quel dolore così tanto pianto e
abbracciato.
la fine d'altronde accade
a tutti, prima o poi, e pare pure non finire mai. era accaduta anche quel
giorno e non faceva che finire di continuo, morendo più volte. moriva di nuovo, ad ogni
abbraccio. ad ogni soffiata di naso. ad ogni breve frase raccontata. ad ogni
pianto soffocato nell'incavo del collo.
nasi rossi dolenti
di morte erano i loro.
ché è la morte che
ti fa premere quegli stupidi fazzoletti bianchi sul naso, aspri e grossolani,
nient'affatto morbidi e così freddi, da tingere i nasi. i nasi di rosso.
bi
"io non so se la
solitudine, se quello
strazio chiamato solitudine, se quell'andare
via dei corpi cari, se quel restare soli
dei vivi, io non so se quel lamento della
solitudine, se quel portarci via le facce,
se quel loro sparire
di facce che avevamo dentro il respiro, non so
se il dono sia questo portarci via le
carezze, questa slacciatura.
è poco il poco che so e di questo
poco io chiedo perdono. io chiedo
perdono per quello che so, perdono io chiedo
per tutto quello che so".
strazio chiamato solitudine, se quell'andare
via dei corpi cari, se quel restare soli
dei vivi, io non so se quel lamento della
solitudine, se quel portarci via le facce,
se quel loro sparire
di facce che avevamo dentro il respiro, non so
se il dono sia questo portarci via le
carezze, questa slacciatura.
è poco il poco che so e di questo
poco io chiedo perdono. io chiedo
perdono per quello che so, perdono io chiedo
per tutto quello che so".
tratto da parsifal, in fuoco centrale e altre poesie per
il teatro
di mariangela gualtieri
di mariangela gualtieri
[illustrazione di pierre mornet]
Forse la fine non vuol finire perché è il momento più bello di tutta la vicenda o comunque il più vero
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