rallento e mi fermo. faccio che passi, dandole la precedenza.
indugia. fa un po’ avanti e indietro, muovendo pochi millimetri, andando a mostrare un profilo stondato e denso di esitazione. un’insicurezza che pare cucitale addosso fin da bambina.
dev’essere una madre dolce e apprensiva, se madre è. o una studentessa che si colora di rosso vermiglio dal collo fin sopra i capelli, se studia. o un’amica che ti chiama se trova le tapparelle chiuse, per sapere se tutto sia in ordine nella tua vita.
parte. mi lancia uno sguardo incerto e sparisce lungo la strada. un frammento di esistenza lo abbiamo condiviso, grazie a pochi istanti di attesa. poi si dissolve, liquida, dalla mia vita.
sul lato destro, la gamba sinistra tirata verso l’alto.
così cominciano le mie notti. le mani vicine e disgiunte, che si scambiano
elettroni notturni e così intimamente sconosciuti. la guancia destra preme al
centro del cuscino sgonfio, morbido più delle cose normalmente morbide.
attendo che il mio corpo faccia sparire la materia di cui
dice d’essere fatto, per trasformarmi in una falena mimetica e silente. il
naso, solo quello, resta con coraggio fuori dalle coperte.pochi intensi istanti liminari mi separano da una soglia di versi bambini, che vociano con gioia e spensieratezza. eppure sono istanti senza tempo.
condivido quella gioia.
smuovo la gamba, il mio corpo è ancora qui.
il silenzio del buio ha una voce: parla sottovoce e pronuncia il mio nome.
il mio cuore è vittima di un’erezione fulminea e mi balza in gola e mi secca le labbra come una folata di tramontana.
l’attesa del sonno è abitata. eppure la mia paura allontana la notte e sveglia i miei sensi. i cinque.
il sole è già alto. percorre un’ellissi schiacciata e più
breve che in estate, si sa, e il mezzodì si affaccia spostato più a sud. il
sole è un regalo di fine ottobre. tira un vento delicato e penetrante, che
raggela la vampata che ha appena attraversato la mia pelle.
un rumore tenace m’insegue alle spalle -eppure sono sola-
sospiro. sospiro due volte. sospiro tre volte. un po’ per la fatica delle
salite sassose e a tratti ripide. un po’ per quel suono, calpestato ed
insistente. sembra premuto addosso a qualcosa, o di ritorno da un altro posto. è un’eco delicatamente echeggiante, che mi scricchiola alle spalle.
mi fermo. esito un momento. idee fatte di spicci di secondi mi ribollono dentro molesti.
mi volto. sono gli alberi a rompere quel silenzio apparente e irreale. il vento li oltrepassa e fa saltellare le foglie imbrunite sui rami. “ci ritroveremo su un letto di foglie”, così mi dicono, in quell’attesa prima ch’io mi giri.
la luce non è sempre bella. quella sintetica e gelida dei
neon tondi e cangianti, ad esempio, è una finzione che ricalca poco la
luminosità. è solo una fonte di chiarore del tutto innaturale.
ho un camice verde scolorito e un paio di slip di cotone
bianco. così mi avevano detto: “li può tenere solo se sono bianchi e di cotone”.
sento freddo e un insieme di voci sconosciute mi invade lo spazio intorno.la luce della sala operatoria, quella mi fa schifo. stai sotto di due, tre piani e ti vendono per giorno quello che per te è solo una notte.
s’avvicina una donna con gentilezza e chiede il mio nome. ho una canula infilzata nel braccio destro, che mi ricorda ad ogni mossa che la cautela nei movimenti è necessaria in questi momenti.
le dico “barbara” e che ho trentadue anni. “ora ti facciamo dormire per un po’, d’accordo? tu resta pure tranquilla. respira regolarmente. pensa ad un momento bello”.
al mare, a quello mi viene da pensare. alla sabbia bianca talmente fina da restarmi ancorata alle caviglie. al tramonto orientale che casca sul mare e a quell’attimo irripetibile che mi resterà per sempre impresso, anche senza che lo fotografi…
mi risveglio dopo tre ore. tre ore in incognito di una presenza così tanto assente.
l’attesa è un’addizione. non di addendi, che accadrebbero di per sé senza aggiungersi a se stessi. è una fotosintesi tra un momento e l’altro.
bi
[foto di alicia savage, da "la révolution surréaliste"]