tuoni lontani, il vento che ne alza il volume ed il pranzo dissolve i presenti, portandoseli nelle loro cose altrove. noi lì, nella cucina adiacente, illuminata dalle due finestre che ci buttano nel verde: ci affacciamo e ci ricopre una costa di aceri e conifere e querce, una misticanza di verdi zuccherati che si perdono tra loro.
il vento si rinforza, la finestra sbatte una delle ante su di sé ed eccola, precisa come il rintocco della campana delle tre, la pioggia da subito forte e decisa. piove ogni volta, ad ogni pranzo di settembre che facciamo tra di noi. entriamo che c’è il sole e il caldo è appena un po’ sfiorito e passato, ma poi dopo le due accade puntuale il vociare della pioggia. acuto e un po’ grave, che smuove le foglie degli alberi da farli echeggiare anche lontani, ininterrotto e potente, che scorre sui sampietrini generando fiumi fragorosi e lucidi, forte e armonioso, come una melodia che ci avvolge mentre prendiamo il caffè.
noi quattro. quattro donne, quattro generazioni, quattro mondi.
- andiamo su, mettiamoci sul divano.
è chiara che parla. una i maiuscola, alta da sempre, da
quando era bambina e più alta di tutti e già maiuscola dall’infanzia. chiara come i
suoi capelli appena poggiati sulle spalle, come la pelle color perla, nitida e
fresca. si muove a passi svelti e brevi e noi la seguiamo al piano di sopra, messe in fila in
ordine sparso. l’ultima sono io, la più piccola quasi ogni volta.
facciamo il nostro ingresso nel salone, riempito da una
luce ingiallita e dalla musicalità del tardo temporale estivo. l’acqua corre e
sembra una quantità tale da poter riempire la valle e far nascere un nuovo lago
a mille metri, di cui dovremmo solo inventare il nome. (il lago dei pensieri,
così lo chiamerei). ci sediamo. due divani da due color avorio e leggermente floreali ci raccolgono al centro del salone e ascoltano le nostre chiacchiere femmine.
siamo sempre state tanto donne nella mia famiglia. tutte femmine che finiscono con la a e sanno fare da sé e anche di più, accompagnate e non, solitarie eppure mai sole. donne che si bastano, queste siamo. un po’ tutte così, anche chi ancora non lo sa (ed è meglio per lei, dico).
del pranzo e dei presenti, di quello parliamo. della pasta che non è avanzata e dello zafferano che ci si sposava benissimo. del matrimonio delle cinque e della sfortuna dell’arrivo della pioggia, ché chissà quella poveretta della sposa come potrà fare con quella sua veste candida che dovrà strusciare sulla strada infangata. del passato, di quello parlo io, ma non per malinconia, quanto per la nostalgia di attimi che conservo nelle interiora, proprio così: intatti e mai masticati del tutto. per conservarne ricordi carnali e non sfatti e diluiti.
- quando andavamo alla terra di zio, ti ricordi? e
coglievamo cestini di ciliegie, arrampicate sulla scala di legno. (e io fuggivo
alla sola vista delle api e delle cassette con cui zio le coltivava con
passione). e zio faceva la discesa a macchina spenta, in folle, con la otto e
cinquanta color crema. alle quattro mi facevi il panino come volevo io e mi
chiamavi signorina tumistufi…
ero come la sua quarta figlia, piccola, estiva e un po’
bizzarra. e lei mi amava, eccome se mi amava, come si amano le estensioni delle
proprie sorelle. mia madre è la sorella minore, io la nipote frizzante e
stravagante, piccola pure di statura, esile e scattante. - ti cambiavi vestiti tre volte al giorno, mi facevi impazzire! neanche dovessi andare chissà dove.
mia madre ride ogni volta a sentirmi raccontata in questo modo, arrivando a far mostra perfino delle gengive e schiudendo i suoi occhi cioccolato fondente.
la gioia è un’asimmetria di attimi e sguardi familiari, come quelli che stiamo vivendo in queste poche ore pomeridiane, contornati dalla pioggia, ora illuminata dal sole, eppure così caparbia e ancora lì a scrosciare sicura di sé.
donna, pure la pioggia, e appoggiata anche lei, insieme a noi, nel salone di sempre, in cui correvo e mi nascondevo da bambina.
noi quattro nei nostri due divani da due.
bi
[ph. bi]
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