lunedì 27 agosto 2012

irene



ascoltava con gli occhi, irene.
arrivava in caletta verso le quattro: lei, due infradito di gomma dai colori del sole che tramonta alle spalle del mare, un telo celeste e sereno come il cielo, un bikini comodo con bretelle ampie e forti.
salutava tutti con energia, irene.
e tutti timidamente salutavano lei.
muoveva le sue dita come fossero dieci lingue sapienti e spalancava le sue mani verso di te, come ad abbracciarti e a dirti:


- tutta me vuole comunicare con te, non solo a parole. mi senti, tu? perché io, nonostante tutto, sì.

ti fissava le fessure labiali come fosse sotto ipnosi e come un allievo farebbe col suo saggio maestro, stupita per ogni parola che diventava per lei una rivelazione, con un’arsura di conoscenza e di sapere, con lo sguardo che sorride e s'apre davanti a te e desidera solo ascoltarti, che le orecchie non servono più, se non ad abbellire un paio d’orecchini pendenti.
chiacchierava con se stessa a voce timida e quasi impercettibile, irene.
e sono certa che ci fosse qualcuno che le rispondesse e che fossimo soltanto noi, i più, sordi a tal punto da non udirlo.
tutti i giorni verso il tramonto caldo e rosso delle sette si preoccupava di sapere che ora fosse e lo chiedeva a voce alta, per paura di non essere capita:


- che ore sono?

e, domandandolo, apriva al mondo le sue braccia opulenti, indicando il polso e preoccupandosi di spiegarsi meglio:

- perché io non lo so che ora si è fatta e mi aspettano per cenare tutti insieme. aspettano proprio me, aspettano.

- sono le sette e un quarto.

le dissi io una sera a voce alta, disegnandole con la punta dell’indice destro un'immaginaria linea verticale davanti agli occhi nostri.
e lei capì subito.
e mi sorrise.
la mia linea improvvisata doveva essere proprio sbilenca, eppure lei era andata oltre e mi aveva ben interpretato.
mi piace pensare che ci fosse qualcuno ad attenderla a casa, a due passi dalla caletta, qualcuno che al suo ritorno le avrebbe aperto la porta e portato un paio di ciabatte asciutte e pulite, da sostituire a quelle di gomma inzuppate da quell’acqua cristallina.
qualcuno che la amasse, irene, che non la temesse ed ignorasse, che con un abbraccio giornaliero non la facesse sentire sorda.
prima di andare via dalla caletta salutava tutti e tutti le rispondevano.
poi risalutava, senza girarsi a guardarli, quelli che non le rispondevano.
e si rispondeva da sola.
se qualcuno andava via, lei subito si rizzava in piedi e si sbracciava e sorrideva, donandogli il suo personalissimo ciao.
l'ha fatto anche con me, quel venerdì.
sembrava che fosse lì pronta da sempre, in attesa del momento giusto per cogliere il mio sguardo su di lei e, al mio primo cenno con gl’occhi verso il mare per ammirarlo un’ultima volta prima di lasciarlo, i suoi occhi vivi e scuri mi sorridevano, cercando i miei, visibilmente malinconici.


- ciao!

mi disse, facendo danzare il suo braccio sinistro e sventolando la mano tra l’azzurro del cielo e del mare, mentre aveva lasciato il destro piantato saldamente sul telo, ancora sdraiata ad asciugarsi.
mi disse proprio cosi:

- torna ancora, non andartene per sempre. cosi ti sentirai meno blu mentre ora ti fermi e guardi le minuscole onde d’oriente, che si tuffano sugli scogli e la sabbia bianca, che a loro volta le abbraccia.

diceva proprio cosi, lo so.
perché mai la chiamano sordomuta, irene?
irene parla, eccome.

siamo noi quelli incapaci a comprendere le sue parole.
sono parole che urlano silenziose e diverse.
ma suonano, eccome.
siamo noi che siamo sordi e pure muti.
siamo noi a non saper parlare con lei.

bi



[nella foto i miei vicini d'ombrellone]

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