martedì 28 agosto 2012

ritrovamenti

era l’una passata da poco e in brevi attimi la piazza si svuotò, diventando silenziosa.
era così da sempre ed era inutile chiedersi da quando precisamente e come mai proprio all’una e non un minuto in più o uno in meno, da poterci rimettere l’orologio con meticolosa precisione.
camminava con fatica per via del caldo afoso e secco e, finita la discesa di sampietrini grigio scuro e lisci, alzò gli occhi davanti all’imponente portone nero.
era così da sempre anche lui, maestoso e pesante, che da piccola non riusciva a spalancarlo, come si farebbe con le porte che si desiderasse oltrepassare prima possibile.
era un varco che si faceva attendere, quello.
girò la chiave verso destra, come faceva da sempre, con scioltezza e precisione, facendo leva con la mano sinistra sul grande pomello pendente dalla forma personalizzata: una mano esile di donna che stringeva con vigore a sé una palla, che, battendo a sua volta sul portone, emetteva un rumore deciso, un’eco che correva aldilà velocemente e fino ai piani superiori.
era così da sempre, eppure questa volta esitò ed in quel preciso istante sospirò profondamente, pensando tra sé:
- per aprire la porta, occorre far girare la serratura come si farebbe in altre porte per chiuderle.
le sembrò più di altre volte che non fosse una porta come tutte e si ricordò quando da piccola spesso si sbagliava e, girando la chiave, ne chiudeva una mandata, anziché sbloccarla ed aprirla.
- no, non è così che si apre. devi girare al contrario, vedi?
le spiegava sua zia, muovendo la chiave verso destra ed aprendo la porta, dandole una botta energica e decisa.
- così, ecco.
quel giorno ci pensò su, come faceva quando si perdeva nei suoi percorsi mentali tortuosi e nascosti.
- faccio per chiudere e la porta si apre.
pensò ancora e, guardandosi i piedi, si disse velocemente che dovrebbe funzionare così anche con i ricordi, forse, e anche con quello che si custodisse dentro, nascosto nei meandri più velati e annebbiati di se stessi, mentre nel frattempo varcò la soglia in travertino di bianco vestito e sorrise, salutando tutti.
il pranzo era a fine preparazione, l’odore del sugo scuro e vellutato avvolgeva l’atrio, passando avanti e indietro dalla cucina al soggiorno e intrufolandosi dentro la dispensa.
ci andò subito.
nella dispensa, ci andò svelta, come attratta da una grossa calamita fatta di tempo espanso, che non avesse un passato ed un presente e che fosse così: semplicemente disteso su se stesso nel suo spazio e non numerabile.
ci si entrava in pochi in dispensa, giusto in due o tre ed uno accanto all’altro, ché la porta si ostruiva e nessuno poteva più farne il suo ingresso, per scoprire quali magie vi si stessero compiendo all’interno.
vi entrò.
e sua zia e sua madre ne uscirono subito, con quattro vassoi di gnocchi di patate incavati e finiti di impastare proprio allora, pronti per essere bolliti in due ampie casseruole di alluminio dai manici tondi e invecchiati.
erano così da sempre, le pentole, erano proprio quelle.
vi entrò e si trovò sola.
subito, altrove.
si girò intorno con gli occhi di allora e trovò tutto immutato, come fosse immobile in un tempo che non fosse più il suo di allora, né di quell'adesso, ma un tempo tutto suo, fatto di un’epoca che durasse all’infinito e senza anni che si susseguissero.
un luogo fatto degli odori antichi che conosceva da sempre, fatto delle voci dei cugini più grandi e appena adolescenti provenienti dal piano di sopra, fatto della nutella spalmata da sua zia su un pane alto e morbido poco prima delle cinque, fatto dei setacci per la farina marroni scuri e circolari ma irregolari e appesi al muro sulla destra, fatto del mobile color crema che si apriva dall’alto e in due parti e che aperto sapeva ancora di cereali e grano, fatto del latte appena munto e comprato prima di cena dalla signora concettina, fatto delle ciambelle al vino tonde e un po’ storte che duravano per settimane, fatto della crostata appena sfornata con una marmellata indefinibile dal colore ibrido e che sapeva di tanta frutta scura cucita insieme, come soltanto una sarta precisa come la zia avrebbe saputo fare con la sua macchina da cucire poggiata sul muro prima della cantina.
si girò intorno con gli occhi di un tempo ed il cuore le pulsava di pensieri ed emozioni che non erano di quel momento, ma che appartenevano ad una memoria vivida e fatta di carne e cuore, impressi nell’anima e ancora così nitidi.
- sono felice…
disse tra sé ad occhi chiusi e un po’ umidi, trattenendo a stento quel galoppo nel cuore, partito all’impazzata e senza freno.
si sentiva come se quei sentimenti le strappassero via i chiodi con cui il tempo metteva ognuno nella sua croce e castigava tutti dove non avesse più senso restare.
poi si voltò verso la finestra e vide sul davanzale, nascosta e tenuta segreta, un’intera crostata di marmellata scura.

(fine prima parte)

bi


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