giovedì 27 giugno 2013

ritrovamenti


oggi torna il vecchio racconto ritrovamenti,
poiché a breve verrà raggiunto dal suo seguito...
e sempre grazie.

 


 
era l’una passata da poco e in brevi attimi la piazza si svuotò, diventando silenziosa. era così da sempre ed era inutile chiedersi da quando precisamente e come mai proprio all’una e non un minuto in più o uno in meno.
camminava con fatica per via del caldo afoso e secco e, finita la discesa di sampietrini grigio scuro e lisci, alzò gli occhi davanti all’imponente portone nero. era così da sempre anche lui, maestoso e pesante, che da piccola non riusciva a spalancarlo, come si fa con le porte che si desidera oltrepassare prima possibile. era un varco che si faceva attendere, quello.
girò la chiave verso destra, come aveva sempre fatto, con scioltezza e precisione, facendo leva con la mano sinistra sul grande pomello pendente dalla forma personalizzata: una mano esile di donna che stringeva con vigore a sé una sfera, che, battendo a sua volta sul portone, emetteva un rumore deciso, un’eco armoniosa e piena che correva aldilà velocemente e fino ai piani superiori.
era così da sempre, eppure questa volta esitò e sospirò profondamente, pensando tra sé:
- per aprire la porta, devo girare la serratura come per chiuderla...
le sembrò più di altre volte che non fosse una porta come tutte e si ricordò quando da piccola spesso si sbagliava e, ruotando la chiave, ne chiudeva una mandata, anziché sbloccarla ed aprirla.
- no, non è così che si apre. devi girare al contrario, vedi?
le spiegava sua zia, muovendo la chiave verso destra ed aprendo la porta, dandole una botta energica e decisa.
- così, ecco.
quel giorno ci pensò su, come faceva quando si perdeva nei suoi percorsi mentali tortuosi e nascosti. faceva per chiudere e la porta si apriva e nel frattempo si guardava i piedi.
- dovrebbe funzionare così anche con i ricordi, forse, e anche con quello che si custodisce nelle parti più nascoste e oscurate di se stessi… pure quelle sono porte che si aprono girando al contrario.
e nel frattempo varcò la soglia in travertino e sorrise, salutando tutti.
il pranzo era a fine preparazione, l’odore del sugo scuro e vellutato avvolgeva l’atrio, passando avanti e indietro dalla cucina al soggiorno e intrufolandosi dentro la dispensa.
s’infilò svelta proprio lì, nella vecchia dispensa, come attratta da una grossa calamita fatta di tempo espanso, che non avesse un passato ed un presente e che fosse così, semplicemente disteso su se stesso nel suo spazio e non numerabile.
ci si entrava in pochi lì dentro, giusto in due o tre ed uno accanto all’altro, perché la porta si ostruiva e nessuno poteva più farne il suo ingresso, per scoprire quali magie vi si stessero compiendo all’interno.
vi entrò, mentre sua zia e sua madre ne uscirono rapide con quattro vassoi di gnocchi di patate incavati e finiti di impastare proprio allora, pronti per essere bolliti in due ampie casseruole di alluminio dai manici tondi e invecchiati.
tutto era così straordinariamente uguale a sempre, anche le pentole erano proprio quelle.
ci restò sola. si sentì subito altrove. si girò intorno con gli occhi di allora e trovò tutto immutato, come fosse congelato in un tempo che non fosse più il suo di allora, né di quell'adesso, ma un momento tutto suo, fatto di un’epoca che infinita e senza il susseguirsi di segmenti chiamati anni.
un luogo fatto degli odori antichi che conosceva bene, delle voci dei cugini più grandi e appena adolescenti provenienti dal piano di sopra, della nutella spalmata da sua zia su un pane alto e morbido poco prima delle cinque, dei setacci per la farina marroni scuri circolari e irregolari appesi al muro sulla destra, del mobile color crema che si apriva dall’alto e in due parti e che aperto sapeva ancora di cereali e grano, del latte appena munto e comprato prima di cena dalla signora concettina, delle ciambelle al vino tonde e un po’ storte che duravano per settimane, della crostata appena sfornata con una marmellata indefinibile dal colore ibrido e che sapeva di tanta frutta scura cucita insieme, come soltanto una sarta precisa come la zia avrebbe saputo fare con la sua macchina da cucire poggiata sul muro prima della cantina.
si girò intorno con gli occhi di un tempo ed il cuore le pulsava di pensieri ed emozioni che non erano di quegli attimi, ma che appartenevano ad una memoria vivida e fatta di carne e cuore, impressi nell’anima e ancora così nitidi.
- sono felice!
balzò dentro di sé ad occhi chiusi e un po’ umidi, trattenendo a stento quel galoppo nel cuore, partito all’impazzata e senza freno. si sentiva come se quei sentimenti le strappassero via i chiodi con cui il tempo metteva ognuno nella sua croce e castigava tutti dove non avesse più senso restare. poi si voltò verso la finestra e vide sul davanzale, nascosta e tenuta segreta, un’intera crostata di marmellata scura.
le parve di rivedersi esattamente lì. folti capelli corti, occhi paglierini veloci ed attenti, un paio di calzoncini blu con tasche zeppe di segreti, una canottiera bianca a coste ricucita al centro della schiena, sandali chiusi blu con due occhi sbiechi e curiosi al centro, concentrati a scovare altri tesori. come una crostata fatta di una marmellata senza nome, scura, profumata di famiglia e d’estate, la stessa che trovava dentro i panciuti barattoli in vetro, sullo scaffale in alto a destra della dispensa.
il silenzio le pulsava tutt’intorno, eppure altre voci lontane la distoglievano altrove.

- e adesso, adesso come faccio? zia si arrabbierà moltissimo!
il terrore le solcava il viso e il cuore le stava fuggendo fuori dal petto, mentre la signora pia la prese a sé, stretta tra due braccia esili e lunghe, e le disse sorridendo:
- non preoccuparti, te la cucio io. togliti la canottiera.
se la tolse in fretta, la girò sulla schiena e la guardò con afflizione: un grosso squarcio si era aperto al centro, nel momento in cui lei stava precipitando dall’altalena di ferro.
- ti sei fatta male?
le avevano chiesto, ma lei no, non sentiva dolore alla schiena, ma piuttosto al cuore, ecco, lì sì. il taglio nella stoffa era colpa sua e lei avrebbe dovuto rimediare. e fu la signora pia ad aiutarla, facendo un ricamo certosino lungo la lavorazione a coste del cotone bianco, a tal punto che nulla lasciasse credere che vi fosse una cucitura. da allora avevano un segreto, lei e la gentile signora pia, qualcosa che sapessero solo loro due.
- è pronto, gli gnocchi sono in tavola!
rimbombò la voce stridula di sua madre, riportandola in quell'adesso: il pranzo di quella domenica a casa della zia. ma prima salì in bagno per lavarsi le mani. una luce debole e giallastra s’infiltrava nella tromba delle scale: il tempo stava cambiando e ampie nubi grigie avanzavano da ovest, dalla costa, coprendo il paese sotto una sottile coltre di fine agosto.
spalancò la porta del bagno e per un attimo restò incredula: anche lì sembrò tutto fermo nel passato.
si mise ad accarezzare le piastrelle bianche e blu dipinte con disegni antichi, controllò il ripiano incavato nel muro e ci trovò due riviste ingiallite di dieci anni prima, una biro nera, quella che usava suo zio, il lavandino bianchissimo con due manopole esagonali, sempre troppo dure per lei da aprire e chiudere. e quel profumo di pulito, un pulito eterno e sempre fresco.
- è certo che non apparteniamo ad alcun tempo, no. ma ai luoghi, quelli sì.
si disse posando la mano sulla maniglia antica e lavorata e, lavate le mani, se ne andò quasi dispiaciuta di riscendere.
raggiunse gli altri al piano di sotto: il suo posto a tavola era quello di sempre, alla sinistra di sua zia e a destra di suo cugino, la finestra sulla lunga collina alberata alle sue spalle ed il grosso camino in marmo sulla sua destra.
mangiò quasi fino allo sfinimento, come a riempirsi la memoria di sapori, odori, abbracci che non voleva andassero perduti: due piatti di ottimi gnocchi di patate irregolari, ognuno diverso dall’altro, morbidi ma consistenti, spuntature di maiale al sugo con due salsicce panciute e tozze e cicoria ripassata in padella, verde, più verde delle altre.
- lasciati un po’ di spazio, perché c’è una sorpresa.
le sussurrò sua zia all'orecchio destro, sporgendosi verso di lei e posandole la mano sulla spalla. ebbe un sussulto. per nulla al mondo avrebbe voluto che quella sorpresa si sciupasse, confidando a sua zia di aver scoperto una crostata nell’angolo nascosto della finestra della dispensa. rimase senza parole e sgranò gli occhi su di lei per la gioia. aspettò.
in quell’attesa c’era un universo in movimento. il lungo sguardo ed il sorriso di sua zia la accarezzavano dalla testa ai piedi, la compiacenza di sua madre era un rafforzativo di intese antiche e quel pranzo senza tempo impregnava il salone di una forte sensazione di pienezza che, nelle viscere di non si sa dove, lei sentiva stringerla in basso, nel ventre. una pienezza che non avesse più bisogno di vuoto per riempirsi ancora: si bastava così, era compiuta.
sua zia si alzò. ormai la accompagnavano lenti movimenti stanchi e non più spensierati, dispetto di un’età avanzata e di un tempo che segna i corpi con il suo scorrere di vita.
ma non le anime, ne era certa, e guardandola la vide esattamente come fosse allora: mora, svelta, nient’affatto appesantita, corpulenta e vigorosa, austera ma dolce, con una veste a fiori dal fondo rosso scuro e comode ciabatte basse in lana cotta verde scuro, impercettibili calze del colore della sua pelle, capelli corti e scuri con la riga ben fatta verso sinistra, foltissimi e tutti uniti.
sua zia scomparve, per ricomparire piena di soddisfazione ed illuminata in viso da un riverbero di mirtilli misti a more e fichi: abbracciava a sé, stretto e con affetto, un vassoio pieno di crostata di marmellata scura ed indefinibile.
il suo regalo, profumato e dolcissimo. per lei, solo per lei.

bi

[scatto abruzzese]

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