venerdì 26 ottobre 2012

(torno subito, prima o poi.)

ci sono posti che inghiottono e posti che no.
uno di questi (sì) è piazza vittorio.
è una piazza che grida, quella, che diventa paonazza per quanto strilla.
e poi espira forte, forte dal basso ventre e innalza forti correnti d’aria, con talmente tanta impetuosità, che poi, quando inspira, si porta dentro le cose e le inghiotte.
ci passo.
e vengo travolta da tutto un turbine di voci, che corrono insieme in direzioni uguali e contrarie, si scontrano e proseguono cieche, si fanno vento tra loro e sembra l’inerzia della corrente a spostarle, non la loro volontà.
li guardo.
e sembrano un girone di dannati danteschi, che espiano colpe segrete con contrappassi indicibili e misteriosi, che si coprono il volto chinando il capo verso giù, molto giù, per paura d’esser scoperti dal primo forestiero che si ferma per forza al semaforo rosso, sempre rosso, rosso profondo e rosso per più di dieci minuti.
l’ascolto.
e tutta la piazza ulula di voci umane e disumane e inumane e intanto giro, giro ancora che non riesco a fermarmi, che tutto intorno ruota e si arrotola veloce intorno al corpo mio, che pare non avere più scampo.
sei mia, dice.
quel caos mi saccheggia dentro, mi penetra a fondo inesorabilmente, che io non mi sento più libera.
sono una forza centripeta, dice cupa.
sono forte di più, di più di te, dice cupa.
la assaggio.
e sa di grigio, di una cosa grigia e marcia che se ne frega del confine e lo sfonda, senza chiedermi il permesso.
sfonda ed entra e il gusto non mi piace, eppure non posso decidere di cambiarlo, io, quel gusto.
non puoi scegliere, mi dice.
l’annuso.
e mi si sprangano involontariamente le narici, sbattono per serrare l’unica via d’uscita che odora.
non ce la fanno, la serratura è troppo debole e le ante del naso restano aperte quel poco che lascia entrare un alito acre, caldo e disgustoso, che s’impossessa dei canali miei, intimi.
la tua intimità non è tua, dice secca.
la tocco.
mi insudicio le punte delle dita, diventano scure, un piccolo mare nero mi scivola sulle mani e cammina, cammina e sale.
sale pei polsi, mi tocca e non sono più io a toccare lei, la piazza.
non toccare, dice con un ghigno.
si nutre.
di anime.
è un luogo che mi prende a sé, per non risputarmi più fuori.
il vento si placa un poco, è stanco anche lui.
non mi piace questo al di qua, è un posto che non dona speranza e non mi fa stare bene.
non mi piace piazza vittorio, non mi piace.
non è per lei, ma per come mi sento io lì.
ma c’è un angolo che amo e che mi attrae.
è un giardino verde scintillante, una fessura che lascia fuori il mondo brutale e mi restituisce la pace e la libertà negata.
è un minuscolo al di là fatto di arte, che trasuda bellezza ultraterrena e mi ricorda che, sì, la metempsicosi è una dimensione possibile.

bi



[mentre l'ho scattata ho provato una vertigine, 
ma non è mica piazza vittorio.]

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