ore 6.35
suona la sveglia.
è di quelle inesorabili e senza melodia e senza volto, che mi tolgono il fiato e che fanno sciogliere qualsiasi notte, che ella lo voglia o meno, che io mi ribelli o no.
quando andavo a scuola pensavo che un lavoratore, rispetto a me, fosse un privilegiato, uno che al suono della sveglia potesse dire con semplicità: no, non mi alzo.
mentre io ero costretta ad andare a scuola.
intorno è silenzio, nessun fiato, il corpo è pesante e non parla, né sussurra.
suona la seconda, alle 6.48.
alla prima non ce l’ho fatta, ma l’ansia del dovermi rizzare e scattare nella doccia non mi ha fatto comunque riprendere sonno, con quella morsa al petto, mentre cerco di convincermi che ci sia del piacere profondo ed intimamente sensuale nello spalmare il burro candido sulla fetta ben biscottata, baciato con delicatezza dalla marmellata di more selvagge di bosco, viola forte e scuro che sembra sangue e sa di bosco vero, quello in cui si aggirano in estate ancora le lucciole.
la doccia è tiepida ed io mi faccio scivolare dall’inerzia verso i miei movimenti rallentati e un po’ assenti e muti e un po’ grigi.
meno male che c’è musica, di quella che chiudo gli occhi e penso che valga la pena di essermi trattenuta qualche minuto in più nel bagno.
ore 12.34
tutti i giorni, senza saltarne uno, da un lunghissimo tempo ormai, mi scuoto dalle noiose attività del mattino e guardo l’ora: sono puntualmente e tutte le volte le dodici e trentaquattro.
non un altro istante, non un altro orario, non un altro momento: proprio quello.
tutti i giorni.
numeri di una precisione e ciclicità misteriose e perenni : 1, 2, 3, 4.
tutti i giorni, sempre alla stessa ora.
poi un giorno ero nella sua cucina, seduta a sorseggiare una tazza di tè, con il volto rivolto a sinistra a guardare oltre la sua figura, più distante e fuori dalla finestra verso il glicine sfiorito e autunnale.
ridevamo e il tè era buono e sapeva di casa.
mi giro a destra, alzo gli occhi sopra alla porta della cucina e vedo una targa.
mi si ferma un attimo il respiro.
ci sono quattro numeri in sequenza: 1, 2, 3, 4.
quasi a sbattermi in faccia l’evidenza di un interrogativo misterioso che non desiderasse più essere tale e volesse invece palesarsi e gridarmi: sono loro, i numeri! erano per tutto questo.
e quella successione di fibonacci continua, tutti i giorni, ancora oggi, e io sorrido, leggera.
ore 16.04
nella casella di posta aziendale continuano ad arrivarmi, con una costanza come quella di pochi, messaggi di hotel sparsi in tutta italia: devono necessariamente ritenere che io usi alberghi a ore.
poi mi scrivono dall’est, dicendomi che ci siamo parlati una volta e che vogliono continuare a parlare e allora ecco che mi lasciano un link, sinistro e diabolico (ed io questo lo so), e un numero sconosciuto, che io, secondo loro, dovrei chiamare.
e sono donne.
e le immagino bionde e composte, con gli occhi chiari e arrotondati, un timido sorriso accennato su labbra sottili, capelli aggiustati e pronti e ben pettinati, sobriamente agghindate.
e mi piace immaginarle così.
ore 17.46
le cuffie mi premono sulle orecchie, mentre ascolto una musica forte che mi dica: è finita, rilassati.
porta la mente altrove, fai altro, posa il tuo sguardo su cose che vivono e si muovono per scelta loro.
e allora mi giro tra gli scaffali un po’ svuotati e con un ordine che non riconosco del piccolo negozio sotto casa mia, dove preferisco fare la spesa.
ho aperto un gelato una volta, poco tempo fa, ed era mezzo squagliato, tutto spostato a destra e mezzo disfatto, come un letto dopo una notte densa di incubi.
abbassano i surgelatori, mi dico, per risparmiare e tagliare le alte spese.
non hanno più un grande giro di clienti e si stanno pure facendo più vecchi di com’erano quando da piccola giravo per quegli stessi scaffali, toccando assorbenti igienici solo perché erano colorati e senza sapere cosa fossero.
stanno riassortendo poche cose, niente più sott’oli, pochi dolci, niente gelati nuovi e hanno spostato la pasta dove prima avevano le bevande.
io mi rattristo e penso che le fini siano spietate e feroci e ineludibili e che mi mancherà fare la spesa lì da loro e chiacchierare alla cassa di come sta loro nipote, mentre loro vogliono che io racconti dell’abruzzo.
voglio ancora andare lì a fare la spesa, finché ci saranno loro.
e non m'importa del gelato disordinato.
poi non so.
ore 21.18
a quest’ora in primavera vedevo venere, affacciandomi dalla finestra della cucina.
ora è sparita da questo spicchio d’orizzonte ed è arrivato il carro: sette meravigliose ed illuminatissime stelle a formare l’orsa maggiore, che decretano l’arrivo dell’estate e mi accompagnano sempre e ovunque, anche in abruzzo se guardo all’incirca verso nord.
loro sono un’altra certezza dai tempi dei tempi, quando cercavo di orientarmi mentre aspettavo le stelle cadenti.
e allora la sera mi piace ritrovarmi lì, tutti i giorni, su quello spicchio di balcone vicino al gelsomino, con mezzo bicchiere di qualsiasi cosa e loro, le stelle, mentre raccolgo la vita della giornata e tutte le idee e tutte le persone e tutte le cose, pensando che quel momento lì, insieme alle stelle, solo io e nessun altro, è bello da sospendere il tempo e zittire i rumori e merita tutti gli sforzi e la stanchezza di una giornata mediamente trascorsa durante una settimana qualunque.
bi
(magari ci sarà un seguito, forse).
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