- è bellissimo il tuo cavallo, come ha fatto ad arrivare fino in abruzzo?
- lo hanno trasportato con un piccolo pulmino per cavalli, che si chiama van.
- e com’è fatto un van?
- è aperto dietro e lei quel giorno se ne stava con tutta la sua coda al vento, lo sai? e si girava a guardarmi.
- certo, ti stava sorridendo e controllava se anche tu avessi la tua coda al vento come lei. aspetta, ora torno.
e sgambettò via, lontano dal nostro tavolo, facendo impensierire la sua mamma. continuava a richiamarla, dicendole che la pizza si sarebbe raffreddata e raccomandandosi soprattutto di stare lontana dal ciglio del marciapiede.
- eccomi, sono tornata. mi racconti ancora di lei? l’hai portata lì perché lo hai deciso tu o lo ha deciso lei?
mi guardava con quegli occhi neri e tondi e pieni di un sacco di cose e mi abbracciava con le sue parole bizzarre e sorridenti e così ricche di significati lontani e nascosti.
- cosa c’è dietro l’angolo, che scappi sempre lì?
- c’è il mio amico immaginario: gli sto raccontando la tua storia. dai, su, raccontami ancora, che lui mi sta aspettando.
- giusto e non possiamo certo farlo aspettare…
- eh no, poi deve andare a letto. è tardi.
- dunque, l’ho portata lì perché lo ha deciso lei. un giorno sono andata a portarle le carote e mi ha detto chiaramente che fosse stufa. e così l’ho portata nel posto che a me non stanca mai da quando sono nata: se non stufa me, mi sono detta, non stancherà neanche lei.
- giusto. infatti non si è stancata ancora, vero?
- no, non ancora. e ha gli occhi più grandi e accesi e lucidi da quando è lì.
- devo proprio venire a vederla, allora. aspettami, adesso torno.
e scappò di nuovo dietro l’angolo della pizzeria, entusiasta e frettolosa, sgattaiolando tra i tavolini e scomparendo magicamente nel suo luogo misterioso, per poi tornare subito dopo.
- mi dai il tuo telefono per favore, così guardo le foto della tua cavallina?
me lo disse con una voce resa ancora più dolce e bambina.
e cominciò a scorrerle, come fossero stese in uno di quegli album vecchi con le copertine rigide e colorate, con le foto disposte in sequenza e custodite da fogli di carta lucida, così da non sciuparle con il tempo.
ad ogni foto era un verso di meraviglia che tirava fuori dal suo posto più nascosto, che noi adulti forse neanche sappiamo più dove sia, e il suo stupore si tramutava in parole tenere e sussurrate solo a sé.
- vedrai che si rimetterà per bene, me l’ho ha detto anche lui.
- lui chi?
- lui, il mio amico immaginario! dice che lì starà bene per forza e tu non devi mai più preoccuparti.
- bene, se me lo dici tu allora sto tranquilla.
- e se sei preoccupata, ti presto il mio peluche per dormire, quello che mi hai regalato tu.
sua mamma mi ha confessato che lei ci dorme tutte le notti, con lui e con nessun altro, pur avendone pieni tutti gli scaffali larghi e alti di quella coloratissima cameretta arancione e gialla.
e dorme anche con l’enciclopedia dei cavalli sotto il cuscino, senza mai pensare che sia dura e scomoda: gliel'ho sempre regalata io.
mi lascia spesso senza replica, senza parole, come se quelle fossero inutili per comunicare tra noi: basta infatti abbracciarci o guardarci in fondo agli occhi per capirci benissimo e farci un bel sorriso aperto e reciproco, da arricciare entrambe il naso.
un giorno mi ha fatto un disegno: eravamo io e lei in mezzo a un grande prato con un albero dalla chioma folta e regolare, il sole con più di dieci raggi attorno e noi due al centro, mano nella mano: io grande e alta e con i capelli fin quasi alle spalle, lei piccina ed esile e con i capelli neri fin sotto alle spalle.
stesso vestito: un abito che ci raffigurava come due principesse, lungo, lineare, imperiale e con le maniche lunghe. bianco.
- vieni un attimo con me, sbrigati...
- dove? non abbiamo ancora finito di cenare.
- vuole conoscerti a tutti i costi! ora!
- chi?
- il mio amico immaginario. vuole conoscerti anche lui. e poi tu mi farai conoscere il tuo.
bi
[foto tratta da internet]
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