giovedì 10 maggio 2012

"transiti di venere"

si spengono le luci e non si apre il sipario, perché sipario non c'è.
ci calano nel buio e si spegne quel vociare che faceva da sottofondo, mentre cominciamo incerte a girare lo sguardo su noi stesse, prima a destra, poi a sinistra, e perdiamo l'orientamento per un po'.
poi ecco che cominciano ad accendersi stelle e pianeti tutt'intorno a noi: a destra, sinistra, sopra, dietro... ci corrono incontro con la velocità del tempo e attraversano uno spazio con noi condiviso.
è la poesia dell'universo, è l'universo che ci parla.
tutto si succede in pochi minuti, come in un cortometraggio in cui non ci sono solo immagini proiettate su due dimensioni: c'è qualcosa di diverso, di più, un'altra dimensione percepita, ma forse neanche soltanto una.
tutto lo spazio è reso movimento e suono e metafora di un luogo che raccoglie ed emana energia, quell'energia che tocchi ma non tocchi, che sta lì, la senti, ed intanto si susseguono attori su un palcoscenico ampio e aperto verso di noi.
una ragazza in vesti romantiche e fiorate si rincorre con un agile tennista, si raggiungono l'un l'altro solo sfiorandosi, senza mai toccarsi, come una pallina da tennis e una racchetta sanno fare: attraverso l'energia dei quanti. forse simulano l'amore secondo come gli uomini sanno viverlo, perché in fondo l'amore ti guarda, ti ruota intorno, ti avvolge, ti sfiora, ma non ti raggiunge mai, forse.
poi due corpi nudi e luminosi si ergono in tutto il loro candore: senza sesso, senza desiderio, solo con la luce che li accende e li spoglia del giudizio della società.
entra un giocatore di pallacanestro e si ferma di fronte a noi: gigante e robusto come una quercia secolare, emula cristo nel momento del trapasso, con una corona di spine infilzata nella testa: muore come in croce, per noi che siamo lì.
a seguire la poesia di thomas eliot, recitata delicatamente e con rotacismo da fausto bertinotti, ci accompagna nella visione di luci polverose che precipano a cascata e sembrano colonne che scendono dal cielo, fasci di luce non terrestri né terrene, accompagnate da musiche melodrammatiche di rossini.
e il regista, che raccoglie una palla e la rinvia verso di noi.
avvertiamo forte la metafora della catastrofe, di quel destino che ti insegue inesorabile, del desiderio di conoscere il senso di te stesso al mondo e della tua stessa vita, della volontà che batte il ritmo delle tue scelte, del viaggio della tua vita sospesa tra due coordinate: lo spazio e il tempo, mai uguali, mai gli stessi, sempre misticamente incrociati e liquidi e per sempre tuoi.
tutto in quel posto è un'evocazione forte del transito di venere, quel fenomeno astronomico rarissimo che si ripete a distanza di cicli di tempo irregolari e decisi dall'universo, così difficile da prevedere e, soprattutto, da vivere. venere attraversa il sole, danza sinuosamente al suo cospetto con amore e seduzione, mentre la terra, noi, restiamo lì a guardare.
ma solo se siamo fortunati, poiché bastano poche nuvole per perdere quella danza per sempre e non poterla mai più osservare.
si riaccendono forti le luci, lo spettacolo è finito e ci giriamo per andar via, mentre tre palline da ping pong ci raggiungono i piedi: rotonde, perfette, bianche. solo a noi, intendo. a nessun altro.
le raccogliamo, ci guardiamo occhi sgranati negli occhi, incredule e pronte a domandarci come mai, come mai lì, come mai in quell'istante, come mai solo a noi tre.
le raccogliamo e le facciamo nostre. e sono nostre per sempre, senza contare quanto duri questo per sempre.
il sei giugno duemiladodici si compierà il transito di venere sulla terra.
l'ultimo fu l'otto giugno del duemilaquattro.
quello prima il sei dicembre milleottocentottantadue.
siamo fortunati.
lo saremo ancor di più se non ci saranno nuvole ad impedirci di godere della sublimazione di quella danza.

bi

dedicato alle mie fedina ed ali, due splendide anime con le quali condivido la pallina da ping pong.
rotonda, perfetta, bianca, venusiana.

  

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